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Il momento culminante dell’Anno Giubilare per ogni credente è il passaggio attraverso la Porta Santa, un gesto altamente simbolico che va vissuto con profonda meditazione. Non si tratta di una semplice visita per ammirare la bellezza architettonica, scultorea o pittorica di una basilica: i primi cristiani non si recavano nei luoghi di culto per questo motivo, anche perché all’epoca non c’era molto da ammirare. Essi giungevano invece per pregare davanti alle reliquie dei santi apostoli e martiri, e per ottenere l’indulgenza grazie alla loro potente intercessione.
Recarsi presso le tombe degli apostoli Pietro e Paolo senza conoscerne la loro vita non è un segno di apprezzamento. Per questo, in quest’Anno Giubilare, desideriamo presentare i percorsi di fede di questi due gloriosi apostoli, così come furono narrati da San Giovanni Bosco.

Vita di san Paolo Apostolo dottore delle genti raccontata al popolo dal sacerdote Giovanni Bosco

PREFAZIONE

CAPO I. Patria, educazione di San Paolo, suo odio contro i Cristiani

CAPO II. Conversione e Battesimo di Saulo — Anno di Cristo 34

CAPO III. Primo viaggio di Saulo — Ritorna a Damasco; gli sono tese insidie — Va a Gerusalemme; si presenta agli Apostoli — Gli appare Gesù Cristo — Anno di Gesù Cristo 35-36-37

CAPO IV. Profezie di Agabo — Saulo e Barnaba ordinati vescovi — Vanno nell’isola di Cipro — Conversione del proconsole Sergio — Castigo del mago Elima — Giovanni Marco ritorna a Gerusalemme — Anno di Gesù Cristo 40-43

CAPO V. San Paolo predica in Antiochia di Pisidia — Anno di Gesù Cristo 44

CAPO VI. San Paolo predica in altre città — Opera un miracolo a Listra, dove poi viene lapidato e lasciato per morto — Anno di Gesù Cristo 45

CAPO VII. Paolo miracolosamente risanato — Altre sue fatiche apostoliche — Conversione di Santa Tecla

CAPO VIII. San Paolo va a conferire con San Pietro — Assiste al Concilio di Gerusalemme — Anno di Cristo 50

CAPO IX. Paolo si separa da Barnaba — Percorre varie città dell’Asia — Dio lo manda in Macedonia — A Filippi converte la famiglia di Lidia — Anno di Cristo 51

CAPO X. San Paolo libera una fanciulla dal demonio — È battuto con verghe — Viene posto in prigione — Conversione del carceriere e della sua famiglia — Anno di Cristo 51

CAPO XI. San Paolo predica a Tessalonica — Affare di Giasone — Va a Berea dove è di nuovo disturbato dagli Ebrei — Anno di Cristo 52

CAPO XII. Stato religioso degli Ateniesi — San Paolo nell’Areopago — Conversione di San Dionigi — Anno di Cristo 52

CAPO XIII. San Paolo a Corinto — Sua dimora in casa di Aquila — Battesimo di Crispo e di Sostene — Scrive ai Tessalonicesi — Ritorno ad Antiochia — Anno di Gesù Cristo 53-54

CAPO XIV. Apollo a Efeso — Il sacramento della Cresima — San Paolo opera molti miracoli — Fatto di due esorcisti Ebrei — Anno di Cristo 55

CAPO XV. Sacramento della Confessione — Libri perversi bruciati — Lettera ai Corinzi — Sollevazione per la dea Diana — Lettera ai Galati — Anno di Cristo 56-57

CAPO XVI. San Paolo ritorna a Filippi — Seconda Lettera ai fedeli di Corinto — Va in questa città — Lettera ai Romani — Sua predica prolungata a Troade — Risuscita un morto — Anno di Cristo 58

CAPO XVII. Predica di San Paolo a Mileto — Suo viaggio fino a Cesarea — Profezia di Agabo — Anno di Cristo 58

CAPO XVIII. San Paolo si presenta a San Giacomo — Gli Ebrei gli tendono insidie — Parla al popolo — Rimprovera il sommo sacerdote — Anno di Cristo 59

CAPO XIX. Quaranta Giudei si obbligano con voto di uccidere San Paolo — Un suo nipote scopre la trama — È trasferito a Cesarea — Anno di Cristo 59

CAPO XX. Paolo davanti al governatore — I suoi accusatori e la sua difesa — Anno di Cristo 59

CAPO XXI. Paolo davanti a Festo — Sue parole al re Agrippa — Anno di Cristo 60

CAPO XXII. San Paolo è imbarcato per Roma — Soffre una terribile tempesta, da cui è salvato con i suoi compagni — Anno di Gesù Cristo 60

CAPO XXIII. San Paolo nell’isola di Malta — È liberato dal morso di una vipera — È accolto in casa di Publio, di cui guarisce il padre — Anno di Cristo 60

CAPO XXIV. Viaggio di San Paolo da Malta a Siracusa — Predica a Reggio — Suo arrivo a Roma — Anno di Cristo 60

CAPO XXV. Paolo parla agli Ebrei e predica loro Gesù Cristo — Progresso del Vangelo a Roma — Anno di Cristo 61

CAPO XXVI. San Luca — I Filippesi mandano aiuti a San Paolo — Malattia e guarigione di Epafrodito — Lettera ai Filippesi — Conversione di Onesimo — Anno di Gesù Cristo 61

CAPO XXVII. Lettera di San Paolo a Filemone — Anno di Gesù Cristo 62

CAPO XXVIII. San Paolo scrive ai Colossesi, agli Efesini e agli Ebrei — Anno di Cristo 62

CAPO XXIX. San Paolo è liberato — Martirio di San Giacomo il Minore — Anno di Cristo 63

CAPO XXX. Altri viaggi di San Paolo — Scrive a Timoteo e a Tito — Suo ritorno a Roma — Anno di Cristo 68

CAPO XXXI. San Paolo è di nuovo imprigionato — Scrive la seconda lettera a Timoteo — Suo martirio — Anno di Cristo 69-70

CAPO XXXII. Sepoltura di San Paolo — Meraviglie operate presso la sua tomba — Basilica a lui dedicata

CAPO XXXIII. Ritratto di San Paolo — Immagine del suo spirito — Conclusione

PREFAZIONE

            San Pietro è il principe degli Apostoli, primo Papa, Vicario di Gesù Cristo sopra la terra. Egli fu stabilito capo della Chiesa; ma la sua missione era particolarmente diretta alla conversione degli Ebrei. San Paolo poi è quell’Apostolo che fu da Dio in maniera straordinaria chiamato a portare la Luce del Vangelo ai Gentili. Questi due grandi Santi sono dalla Chiesa nominati le colonne e le fondamenta della Fede, principi degli Apostoli, i quali con le loro fatiche, con i loro scritti e col loro sangue c’insegnarono la legge del Signore; Ipsi nos docuerunt legem tuam, Domine (Essi ci hanno insegnato la tua legge, Signore). Per questo motivo alla vita di San Pietro facciamo succedere quella di San Paolo.
            È vero che questo apostolo non è da annoverarsi nella serie dei Papi; ma le fatiche straordinarie da lui sostenute per aiutare San Pietro a propagare il Vangelo, lo zelo, la carità, la dottrina lasciataci nei sacri libri, ce lo fanno parere degno di essere posto a lato della vita del primo Papa, come forte colonna su cui si appoggia la Chiesa di Gesù Cristo.

CAPO I. Patria, educazione di San Paolo, suo odio contro i Cristiani

            San Paolo era Giudeo della tribù di Beniamino. Otto giorni dopo la sua nascita fu circonciso, e gli fu imposto il nome di Saulo, che fu poi cambiato in quello di Paolo. Suo padre dimorava a Tarso, città di Cilicia, provincia dell’Asia Minore. L’imperatore Cesare Augusto concedette molti favori a questa città e fra gli altri il diritto di cittadinanza romana. Quindi San Paolo, essendo nato a Tarso, era cittadino romano, qualità che portava con sé molti vantaggi, perché si poteva godere dell’immunità dalle leggi particolari di tutti i paesi soggetti o alleati al romano impero, ed in qualunque luogo un cittadino romano poteva appellarsi al senato o all’imperatore per essere giudicato.
            I suoi parenti, essendo agiati, lo mandarono a Gerusalemme per dargli un’educazione conveniente al loro stato. Il suo maestro fu un dottore di nome Gamaliele, uomo di grande virtù, di cui abbiamo già parlato nella vita di San Pietro. In quella città ebbe la fortuna di trovare un buon compagno di Cipro, chiamato Barnaba, giovane di grande virtù, la cui bontà di cuore contribuì molto a temperare l’animo focoso del condiscepolo. Questi due giovani si conservarono sempre leali amici, e noi li vedremo diventare colleghi nella predicazione del Vangelo.
            Il padre di Saulo era Fariseo, vale a dire professava la setta più severa fra gli Ebrei, la quale faceva consistere la virtù in una grande esterna apparenza di rigore, massima del tutto contraria allo spirito di umiltà del Vangelo. Saulo seguì le massime di suo padre, e poiché il suo maestro era anche Fariseo, così egli divenne pieno di entusiasmo per accrescerne il numero e togliere di mezzo ogni ostacolo che si opponesse a tale scopo.
            Era costume presso gli Ebrei far imparare ai loro figli un mestiere mentre attendevano allo studio della Bibbia. Ciò facevano al fine di preservarli dai pericoli che con sé porta l’oziosità; ed anche per occupare il corpo e lo spirito in qualcosa che potesse somministrare di che guadagnarsi il pane nelle gravi circostanze della vita. Saulo imparò il mestiere di conciatore di pelli e specialmente a cucire tende. Egli si segnalava sopra tutti quelli della sua età per il suo zelo verso la legge di Mosè e le tradizioni dei Giudei. Questo zelo poco illuminato lo rese bestemmiatore, persecutore e feroce nemico di Gesù Cristo.
            Egli eccitò i Giudei a condannare Santo Stefano, e fu presente alla sua morte. E poiché la sua età non gli permetteva di prendere parte all’esecuzione della sentenza, così egli, quando Stefano era per essere lapidato, custodiva i vestiti dei suoi compagni e li incitava con furia a scagliare pietre contro di lui. Ma Stefano, vero seguace del Salvatore, fece la vendetta dei santi, cioè si mise a pregare per coloro che lo lapidavano. Questa preghiera fu il principio della conversione di Saulo; e Sant’Agostino dice precisamente che la Chiesa non avrebbe avuto in Paolo un apostolo, se il diacono Stefano non avesse pregato.
            In quei tempi fu suscitata una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme, e Saulo era colui che mostrava una smania feroce per disperdere e mandare a morte i discepoli di Gesù Cristo. Al fine di fomentare meglio la persecuzione in pubblico e in privato, si fece a tal uopo autorizzare dal principe dei sacerdoti. Allora egli divenne come un lupo affamato che non si sazia di sbranare e divorare. Entrava nelle case dei Cristiani, li insultava, li malmenava, li legava o li faceva caricare di catene perché fossero poi trascinati in prigione, li faceva battere con verghe; insomma, adoperava ogni mezzo per costringerli a bestemmiare il santo nome di Gesù Cristo. La notizia delle violenze di Saulo si sparse anche in paesi lontani, di modo che il solo suo nome incuteva spavento fra i fedeli.
            I persecutori non si contentavano di incrudelire contro le persone dei Cristiani; ma, come fu sempre usato dai persecutori, li spogliavano anche dei loro beni e di quanto possedevano in comune. Il che faceva sì che molti erano indotti a campare la vita con le elemosine che i fedeli delle Chiese lontane loro inviavano. Ma vi è un Dio che assiste e governa la sua Chiesa, e quando meno ci pensiamo egli viene in soccorso di chi in lui confida.

CAPO II. Conversione e Battesimo di Saulo — Anno di Cristo 34

            Il furore di Saulo non poteva saziarsi; egli non respirava che minacce e stragi contro i discepoli del Signore. Avendo inteso che a Damasco, città distante circa cinquanta miglia da Gerusalemme, molti Giudei avevano abbracciato la fede, si sentì ardere di furibondo desiderio di recarsi là a farne strage. Per fare liberamente quanto gli suggeriva il suo odio contro i Cristiani, andò dal principe dei sacerdoti e dal senato, che con lettere lo autorizzarono ad andare a Damasco, incatenare tutti i Giudei che si dichiarassero Cristiani e quindi condurli a Gerusalemme ed ivi punirli con una severità capace di arrestare quelli che fossero stati tentati di imitarli.
            Ma sono vani i progetti degli uomini quando sono contrari a quelli del Cielo! Dio, mosso dalle preghiere di Santo Stefano e degli altri fedeli perseguitati, volle manifestare in Saulo la sua potenza e la sua misericordia. Saulo, con le sue lettere commendatizie, pieno di ardore, divorando la strada, era vicino alla città di Damasco, e già gli sembrava di avere i Cristiani fra le mani. Ma quello era il luogo della divina misericordia.
            Nell’impeto del suo cieco furore, verso il mezzogiorno, una gran luce, più risplendente di quella del sole, lo circonda con tutti quelli che l’accompagnavano. Sbalorditi da quello splendore celeste, caddero tutti a terra come morti; nello stesso tempo intesero il rumore di una voce, compresa solamente da Saulo. “Saulo, Saulo”, disse la voce, “perché mi perseguiti?” Allora Saulo, ancora più spaventato, riprese: “Chi siete voi che parlate?” “Io sono”, continuò la voce, “quel Gesù che tu perseguiti. Ricordati che è cosa troppo dura dare calci contro lo sprone, il che tu fai resistendo a uno più potente di te. Perseguitando la mia Chiesa, tu perseguiti me stesso; ma questa diverrà più fiorente, e non farai male che a te stesso.”
            Questo dolce rimprovero del Salvatore, accompagnato dall’unzione interna della sua grazia, addolcì la durezza del cuore di Saulo e lo cambiò in un uomo completamente nuovo. Pertanto, tutto umiliato, esclamò: “Signore, che volete che io faccia?” Come se dicesse: Qual è il mezzo di procurare la vostra gloria? Io mi offro a voi per fare la vostra santissima volontà.
            Gesù Cristo ordinò a Saulo di alzarsi e andare nella città dove un discepolo l’avrebbe istruito intorno a ciò che doveva fare. Dio, dice Sant’Agostino, rimettendo ai suoi ministri l’istruzione di un apostolo chiamato in una maniera così straordinaria, ci insegna che bisogna cercare la sua santa volontà nell’insegnamento dei Pastori, che egli ha rivestito della sua autorità per essere nostre guide spirituali sulla terra.
            Saulo, essendosi alzato, non vedeva più nulla, sebbene tenesse gli occhi aperti. Quindi fu necessario dargli la mano e condurlo a Damasco, come se Gesù Cristo volesse condurlo in trionfo. Egli prese alloggio nella casa di un negoziante chiamato Giuda; ivi dimorò tre giorni senza vedere, senza bere e senza mangiare, ignorando tuttora ciò che Dio volesse da lui.
            Vi era a Damasco un discepolo chiamato Anania, molto stimato dai Giudei per la sua virtù e santità. Gesù Cristo gli apparve e gli disse: “Anania!” Ed egli a lui: “Eccomi, o Signore.” Il Signore soggiunse: “Alzati e va nella via chiamata Diritta, e cerca un certo Saulo nativo di Tarso; tu lo troverai mentre fa orazione.” Anania, sentito il nome di Saulo, tremò e disse: “O Signore, dove mai mi mandate? Voi ben sapete il gran male che ha fatto ai fedeli in Gerusalemme; ora si sa da tutti che egli è venuto qua con pieno potere di legare tutti coloro che credono nel vostro Nome.” Il Signore replicò: “Va pure tranquillo, non temere, perché quest’uomo è uno strumento scelto da me per portare il mio nome ai gentili, davanti ai re e davanti ai figli d’Israele; perché io gli farò vedere quanto egli debba patire per il mio nome.” Mentre Gesù Cristo parlava ad Anania, mandò a Saulo un’altra visione, in cui gli apparve un uomo chiamato Anania che, avvicinandosi a lui, gli imponeva le mani per ridonargli la vista. Il che fece il Signore per assicurare Saulo che Anania era colui che mandava per manifestargli i suoi voleri.
            Anania obbedì, andò a trovare Saulo, gli impose le mani e gli disse: “Saulo fratello, il Signore Gesù che ti apparve nella strada per la quale venivi a Damasco, mi ha mandato a te affinché tu recuperi la vista e sia ripieno dello Spirito Santo.” Parlando così Anania e tenendo le mani sul capo di Saulo, aggiunse: “Apri gli occhi.” In quel momento caddero dagli occhi di Saulo certe scaglie come squame, ed egli recuperò perfettamente la vista.
            Quindi Anania soggiunse: “Ora alzati e ricevi il Battesimo, e lava i tuoi peccati invocando il nome del Signore.” Saulo si alzò subito per ricevere il Battesimo; quindi, tutto pieno di gioia, ristorò la sua stanchezza con un po’ di cibo. Passati appena alcuni giorni con i discepoli di Damasco, si mise a predicare il Vangelo nelle sinagoghe, dimostrando con le Sacre Scritture che Gesù era Figlio di Dio. Tutti quelli che lo ascoltavano erano pieni di stupore, e andavano dicendo: “Non è egli costui che in Gerusalemme perseguitava coloro che invocavano il nome di Gesù e che è venuto apposta a Damasco per condurli là prigionieri?”
            Ma Saulo aveva già superato ogni rispetto umano; egli nulla più desiderava che promuovere la gloria di Dio e riparare lo scandalo dato; perciò, lasciando che ognuno dicesse di lui quel che voleva, confondeva gli Ebrei e con intrepidezza predicava Gesù Crocifisso.

CAPO III. Primo viaggio di Saulo — Ritorna a Damasco; gli sono tese insidie — Va a Gerusalemme; si presenta agli Apostoli — Gli appare Gesù Cristo — Anno di Gesù Cristo 35-36-37

            Saulo, alla vista delle gravi opposizioni che gli si facevano da parte degli Ebrei, ritenne opportuno allontanarsi da Damasco per passare qualche tempo con gli uomini semplici della campagna e anche per recarsi in Arabia a cercare altri popoli meglio disposti a ricevere la fede.
            Dopo tre anni, credendo cessata la tempesta, ritornò a Damasco, dove con zelo e forza si diede a predicare Gesù Cristo; ma gli Ebrei, non potendo resistere alle parole di Dio che per mezzo del suo ministro venivano loro predicate, decisero di farlo morire. Per meglio riuscire nel loro intento, lo denunciarono ad Areta, re di Damasco, rappresentandogli Saulo come perturbatore della pubblica tranquillità. Quel re, troppo credulo, ascoltò la calunnia e comandò che Saulo fosse condotto in prigione, e perché non fuggisse pose guardie a tutte le porte della città. Queste insidie però non poterono tenersi così occulte che non ne venisse notizia ai discepoli e allo stesso Saulo. Ma come mai poterlo liberare? Quei buoni discepoli lo condussero in una casa che dava sulle mura della città e, messolo in una cesta, lo calarono giù dalla muraglia. Così, mentre le guardie vegliavano a tutte le porte e si faceva rigorosissima ricerca in ogni angolo di Damasco, Saulo, liberato dalle loro mani, sano e salvo prende la via per Gerusalemme.
            Sebbene la Giudea non fosse il campo affidato al suo zelo, era però santo il motivo di questo suo viaggio. Egli considerava come suo indispensabile dovere il presentarsi a Pietro, dal quale non era ancora conosciuto, e così dar conto della sua missione al Vicario di Gesù Cristo. Saulo aveva impresso terrore così grande del suo nome ai fedeli di Gerusalemme che non potevano credere alla sua conversione. Cercava di accostarsi ora agli uni, ora agli altri; ma tutti, paurosi, lo fuggivano senza dargli tempo di spiegarsi. Fu in quella congiuntura che Barnaba si dimostrò vero amico. Appena udì raccontare la prodigiosa conversione di questo suo condiscepolo, si recò subito da lui per consolarlo; andato poi dagli Apostoli, raccontò loro la prodigiosa apparizione di Gesù Cristo a Saulo e come egli, istruito direttamente dal Signore, non desiderava altro che pubblicare il santo nome di Dio a tutti i popoli della terra. A così liete notizie i discepoli lo accolsero con gioia e San Pietro lo tenne parecchi giorni in casa sua, dove non lasciò di farlo conoscere ai più zelanti fedeli; né lasciava sfuggire occasione alcuna per rendere testimonianza a Gesù Cristo in quei luoghi stessi in cui l’aveva bestemmiato e fatto bestemmiare.
            E siccome egli troppo caldamente stringeva gli Ebrei e li confondeva in pubblico e in privato, questi gli si levarono contro, risoluti a togliergli la vita. Perciò i fedeli lo consigliarono a partire da quella città. La medesima cosa gli fece conoscere Dio per mezzo di una visione. Un giorno, mentre Saulo pregava nel tempio, gli apparve Gesù Cristo e gli disse: “Parti subito da Gerusalemme, perché questo popolo non crederà a quello che tu sei per dire di me.” Paolo rispose: “Signore, essi sanno come io fui persecutore del vostro santo nome; se sapranno che io mi sono convertito, certo seguiranno il mio esempio e si convertiranno anch’essi.” Gesù soggiunse: “Non è così: essi non presteranno fede alcuna alle tue parole. Va’, io ti ho scelto per portare il mio Vangelo in lontani paesi fra i gentili” (Atti degli Apostoli, cap. 22).
            Deliberata così la partenza di Paolo, i discepoli lo accompagnarono a Cesarea e di là lo inviarono a Tarso, sua patria, con la speranza che avrebbe potuto vivere con minor pericolo tra i parenti e gli amici e cominciare anche in quella città a far conoscere il nome del Signore.

CAPO IV. Profezie di Agabo — Saulo e Barnaba ordinati vescovi — Vanno nell’isola di Cipro — Conversione del proconsole Sergio — Castigo del mago Elima — Giovanni Marco ritorna a Gerusalemme — Anno di Gesù Cristo 40-43

            Mentre Saulo a Tarso predicava la divina parola, Barnaba si mise a predicarla con gran frutto ad Antiochia. Alla vista poi del gran numero di quelli che ogni giorno venivano alla fede, Barnaba ritenne opportuno recarsi a Tarso per invitare Saulo a venire a coadiuvarlo. Vennero infatti entrambi ad Antiochia, e qui con la predicazione e con i miracoli guadagnarono un gran numero di fedeli.
            In quei giorni alcuni profeti, cioè alcuni fervorosi cristiani che, illuminati da Dio, predicevano l’avvenire, vennero da Gerusalemme ad Antiochia. Uno di essi, di nome Agabo, ispirato dallo Spirito Santo, predisse una grande carestia che doveva desolare tutta la terra, come infatti avvenne sotto l’impero di Claudio. I fedeli, per prevenire i mali che questa carestia avrebbe cagionato, risolsero di fare una colletta e così ciascuno, secondo le proprie forze, mandare qualche soccorso ai fratelli della Giudea. La qual cosa fecero con ottimi risultati. Per avere poi una persona di credito presso tutti, scelsero Saulo e Barnaba e li mandarono a portare tale elemosina ai sacerdoti di Gerusalemme, perché ne facessero la distribuzione secondo il bisogno. Compiuta la loro missione, Saulo e Barnaba ritornarono ad Antiochia.
            Dimoravano pure in questa città altri profeti e dottori, tra i quali un certo Simone soprannominato il Nero, Lucio da Cirene e Manaen, fratello di latte di Erode. Un giorno, mentre essi offrivano i Santi Misteri e digiunavano, apparve lo Spirito Santo in maniera straordinaria e disse loro: “Separatemi Saulo e Barnaba per l’opera del sacro ministero a cui li ho eletti.” Allora fu ordinato un digiuno con pubbliche preghiere e, avendo loro imposto le mani, li consacrarono vescovi. Questa ordinazione fu modello di quelle che la Chiesa Cattolica suole fare ai suoi ministri: di qui ebbero origine i digiuni delle quattro tempora, le preghiere e altre cerimonie che sogliono aver luogo nella sacra ordinazione.
            Saulo era ad Antiochia quando ebbe una meravigliosa visione, nella quale fu rapito al terzo cielo, cioè fu sollevato da Dio a contemplare le cose del Cielo più sublimi di cui sia capace un uomo mortale. Egli stesso lasciò scritto di aver visto cose che non si possono esprimere con parole, cose mai viste, mai udite, e che il cuore dell’uomo non può nemmeno immaginare. Da questa celeste visione, Saulo, confortato, partì con Barnaba e andò direttamente a Seleucia di Siria, così chiamata per distinguerla da un’altra città dello stesso nome situata in vicinanza del Tigri verso la Persia. Avevano anche con loro un certo Giovanni Marco, non Marco l’Evangelista. Egli era figlio di quella pia vedova nella cui casa si era rifugiato San Pietro quando fu miracolosamente liberato di prigione da un angelo. Era cugino di Barnaba ed era stato condotto da Gerusalemme ad Antiochia nell’occasione in cui andarono là a portare le elemosine.
            Seleucia aveva un porto sul Mediterraneo: di là i nostri operai evangelici si imbarcarono per andare all’isola di Cipro, patria di San Barnaba. Giunti a Salamina, città e porto considerevole di quell’isola, cominciarono ad annunciare il Vangelo ai Giudei e poi ai Gentili, che erano più semplici e meglio disposti a ricevere la fede. I due Apostoli, predicando per tutta quell’isola, vennero a Pafo, capitale del paese, dove risiedeva il proconsole ossia il governatore romano di nome Sergio Paolo. Qui lo zelo di Saulo ebbe occasione di esercitarsi a motivo di un mago chiamato Bar-Jesus o Elima. Costui, fosse per guadagnarsi il favore del proconsole o trarre denaro dalle sue truffe, seduceva la gente e allontanava Sergio dal seguire i pii sentimenti del suo cuore. Il proconsole, avendo udito parlare dei predicatori che erano venuti nel paese da lui governato, li mandò a chiamare affinché andassero a fargli conoscere la loro dottrina. Andarono subito Saulo e Barnaba ad esporgli le verità del Vangelo; ma Elima, al vedersi togliere la materia dei suoi guadagni, temendo forse peggio, si mise a ostacolare i disegni di Dio, contraddicendo alla dottrina di Saulo e screditandolo presso il proconsole per tenerlo lontano dalla verità. Allora Saulo, tutto acceso di zelo e di Spirito Santo, gli gettò addosso gli sguardi: “Scellerato”, gli disse, “arca di empietà e di frode, figlio del diavolo, nemico d’ogni giustizia, non ti arresti ancora dal pervertire le diritte vie del Signore? Ora ecco la mano di Dio pesare su di te: fin da questo momento tu sarai cieco e per il tempo che Dio vorrà non vedrai la luce del sole.” All’istante gli cadde sugli occhi una caligine, da cui, toltagli la facoltà di vedere, egli andava attorno tentoni cercando chi gli desse la mano.
            A quel fatto terribile Sergio riconobbe la mano di Dio e, mosso dalle prediche di Saulo e da quel miracolo, credette in Gesù Cristo ed abbracciò la fede con tutta la sua famiglia. Anche il mago Elima, atterrito da questa repentina cecità, riconobbe la potenza divina nelle parole di Paolo e, rinunciando all’arte magica, si convertì, fece penitenza ed abbracciò la fede. In questa occasione Saulo prese il nome di Paolo, sia in memoria della conversione di quel governatore, sia per essere meglio accolto fra i Gentili, poiché Saulo era nome ebreo, Paolo invece era nome romano.
            Raccolto a Pafo non piccolo frutto della loro predicazione, Paolo e Barnaba con altri compagni s’imbarcarono alla volta di Perge, città della Panfilia. Ivi rimandarono a casa Giovanni Marco, che fino allora si era adoperato in loro aiuto. Barnaba lo avrebbe volentieri tenuto ancora; ma Paolo, scorgendo in lui una certa pusillanimità ed incostanza, pensò di rimandarlo a sua madre a Gerusalemme. Vedremo fra breve questo discepolo riparare la debolezza or ora dimostrata e divenire fervoroso predicatore.

CAPO V. San Paolo predica in Antiochia di Pisidia — Anno di Gesù Cristo 44

            Da Perga, San Paolo andò con San Barnaba ad Antiochia di Pisidia, così chiamata per distinguerla da Antiochia di Siria, che era la grande capitale dell’Oriente. Lì i Giudei, come in molte altre città dell’Asia, avevano la loro sinagoga dove nei giorni di sabato si riunivano per ascoltare la spiegazione della Legge di Mosè e dei Profeti. Intervennero anche i due apostoli e con essi molti Ebrei e Gentili che già adoravano il vero Dio. Secondo l’uso degli Ebrei, i dottori della legge lessero un brano della Bibbia che poi diedero a Paolo con la preghiera di dire loro qualcosa di edificante. Paolo, che non aspettava altro che l’opportunità di parlare, si alzò in piedi, indicò con la mano che facessero tutti silenzio, e prese a parlare così: «Figli d’Israele, e voi tutti che temete il Signore, poiché mi invitate a parlare, vi prego di ascoltarmi con quell’attenzione che merita la dignità delle cose che sto per dirvi.
            «Quel Dio che ha scelto i nostri padri quando erano in Egitto e con una lunga serie di prodigi ne ha fatto una nazione privilegiata, ha in particolare modo onorato la stirpe di Davide promettendo che da questa avrebbe fatto nascere il Salvatore del mondo. Quella grande promessa, confermata da tante profezie, si è finalmente adempiuta nella persona di Gesù di Nazareth. Giovanni, al quale certamente voi credete, quel Giovanni le cui sublimi virtù fecero credere per Messia, gli ha reso la più autorevole testimonianza dicendo che egli non si giudicava degno di sciogliere nemmeno i legacci dei suoi calzari. Voi oggi, fratelli, voi degni figli di Abramo, e voi tutti adoratori del vero Dio, di qualunque nazione o stirpe siate, siete quelli ai quali è particolarmente indirizzata la parola di salvezza. Gli abitanti di Gerusalemme, ingannati dai loro capi, non hanno voluto riconoscere il Redentore che vi predichiamo. Anzi, gli hanno dato la morte; ma Dio onnipotente non ha permesso, come aveva predetto, che il corpo del suo Cristo subisse la corruzione nel sepolcro. Pertanto, nel terzo giorno dopo la morte, lo fece risorgere glorioso e trionfante.
            «Fino a questo punto voi non avete colpa alcuna, perché la luce della verità non era ancora giunta fino a voi. Ma tremate d’ora in avanti se mai chiuderete gli occhi; tremate di provocare sopra di voi la maledizione fulminata dai profeti contro chiunque non vuole riconoscere la grande opera del Signore, il cui compimento deve aver luogo in questi giorni».
            Finito il discorso, tutti gli uditori si ritirarono in silenzio meditando sulle cose ascoltate da San Paolo.
            Erano però diversi i pensieri che occupavano le loro menti. I buoni erano pieni di gioia alle parole di salvezza loro annunciate, ma gran parte dei Giudei, sempre persuasi che il Messia dovesse ristabilire la potenza temporale della loro nazione e vergognandosi di riconoscere per Messia colui che i loro principi avevano condannato a morte ignominiosa, accolsero con dispetto la predica di Paolo. Tuttavia si mostrarono soddisfatti ed invitarono l’Apostolo a ritornare nel sabato seguente, con animo però ben diverso: i malevoli per prepararsi a contraddirlo, e quelli che temevano il Signore, Israeliti e Gentili, per meglio istruirsi e confermarsi nella fede. Nel giorno convenuto si radunò un immenso popolo per udire questa nuova dottrina. Appena San Paolo si pose a predicare, subito i dottori della sinagoga si levarono contro di lui. Opposero dapprima delle difficoltà; quando poi si accorsero di non poter resistere alla forza delle ragioni con cui San Paolo provava le verità della fede, si abbandonarono agli schiamazzi, alle ingiurie, alle bestemmie. I due apostoli, vedendosi soffocare la parola in bocca, con forte animo ad alta voce esclamarono: «A voi si doveva in primo luogo annunciare la divina parola; ma giacché vi tappate dispettosamente le orecchie e con furore la respingete, vi rendete indegni dell’eterna vita. Noi pertanto ci rivolgiamo ai Gentili per compiere la promessa fatta da Dio per bocca del suo profeta quando disse: “Io ti ho destinato per luce dei Gentili e per la salvezza di essi fino all’estremità della terra”».
            I Giudei allora, ancor più mossi da invidia e sdegno, eccitarono contro gli Apostoli una fiera persecuzione.
            Si servirono di alcune donne che godevano credito di essere pie ed oneste, e con esse incitarono i magistrati della città, e tutti insieme, gridando e schiamazzando, costrinsero gli Apostoli a uscire dai loro confini. Così costretti, Paolo e Barnaba partirono da quello sventurato paese e, nell’atto della loro partenza, secondo il comandamento di Gesù Cristo, scossero la polvere dai loro piedi in segno di rinunciare per sempre ad ogni rapporto con essi, come uomini riprovati da Dio e colpiti dalla divina maledizione.

CAPO VI. San Paolo predica in altre città — Opera un miracolo a Listra, dove poi viene lapidato e lasciato per morto — Anno di Gesù Cristo 45

            Paolo e Barnaba, cacciati dalla Pisidia, si recarono nella Licaonia, altra provincia dell’Asia Minore, e si portarono a Iconio, che ne era la capitale. I santi Apostoli, cercando solo la gloria di Dio, dimenticando i maltrattamenti che avevano ricevuto in Antiochia dagli Ebrei, si diedero subito a predicare il Vangelo nella sinagoga. Qui Dio benedisse le loro fatiche, ed una moltitudine di Ebrei e di Gentili abbracciò la fede. Ma quelli tra gli Ebrei che restarono increduli e si ostinarono nell’empietà, mossero un’altra persecuzione contro gli Apostoli. Alcuni li accoglievano come uomini mandati da Dio, altri li proclamavano impostori. Perciò, essendo stati avvisati che molti di loro, protetti dai capi della sinagoga e dai magistrati, volevano lapidarli, andarono a Listra e poi a Derbe, città non molto distante da Iconio. Queste città e i paesi vicini furono il campo dove i nostri zelanti operai si diedero a seminare la parola del Signore. Fra i molti miracoli che Dio operò per mano di San Paolo in questa missione, fu luminoso quello che stiamo per riferire.
            A Listra vi era un uomo storpio fin dalla nascita, che non aveva mai potuto fare un passo con i suoi piedi. Avendo udito che San Paolo operava miracoli strepitosi, sentì nascere in cuore viva fiducia di poter anche egli per tal mezzo ottenere la salute come tanti altri l’avevano già ottenuta. Ascoltava le prediche dell’Apostolo, quando egli, mirando fissamente quell’infelice e dal volto penetrando le buone disposizioni dell’animo, gli disse ad alta voce: “Alzati e sta diritto sui tuoi piedi”. A un tal comando lo storpio si alzò e cominciò a camminare speditamente. La moltitudine che era stata presente a tal miracolo si sentì trasportata da entusiasmo e meraviglia. “Costoro non sono uomini”, si andava da tutte le parti esclamando, “ma sono dèi rivestiti di sembianze umane, discesi dal cielo in mezzo a noi”. E secondo tale erronea supposizione chiamavano Barnaba Giove, perché lo scorgevano di sembiante più maestoso, e Paolo, che parlava con meravigliosa facondia, chiamavano Mercurio, il quale presso i Gentili era l’interprete e messaggero di Giove e il dio dell’eloquenza. Giunta la notizia del fatto al sacerdote del tempio di Giove, che era fuori della città, egli giudicò suo dovere offrire ai grandi ospiti un solenne sacrificio ed invitare tutto il popolo a prendervi parte. Preparate le vittime, le corone e quanto facesse d’uopo per la funzione, portarono ogni cosa davanti alla casa dove alloggiavano Paolo e Barnaba, volendo in tutti i modi fare loro un sacrificio. I due Apostoli, accesi di santo zelo, si gettarono nella folla e, in segno di dolore, lacerandosi le vesti, gridavano: “Oh, che fate, o miseri? Noi siamo uomini mortali simili a voi; noi appunto con tutto lo spirito vi esortiamo a convertirvi dal culto degli dèi al culto di quel Signore che ha creato il cielo e la terra, e che sebbene in passato abbia tollerato che i Gentili seguissero le loro follie, ha però fornito chiari argomenti del suo essere e della sua infinita bontà con opere che lo fanno conoscere supremo padrone di ogni cosa”.
            A così franco parlare gli animi si calmarono e abbandonarono l’idea di fare quel sacrificio. I sacerdoti non avevano ancora totalmente ceduto e stavano perplessi se dovessero desistere quando sopraggiunsero da Antiochia e da Iconio alcuni Ebrei, deputati dalle sinagoghe per venire a turbare le sante imprese degli Apostoli. Quei maligni tanto fecero e tanto dissero che riuscirono a rivoltare tutto il popolo contro i due Apostoli. Così coloro che pochi giorni prima li veneravano come dèi, ora li gridano malfattori; e poiché San Paolo aveva singolarmente parlato, perciò la rabbia fu tutta rivolta contro di lui.
            Gli scaricarono addosso tale tempesta di sassi che, credendolo morto, lo trascinarono fuori della città. Vedi, o lettore, quale conto devi fare della gloria del mondo! Coloro che oggi ti vorrebbero innalzare al di sopra delle stelle, domani forse ti vogliono nel più profondo degli abissi! Beati coloro che ripongono in Dio la loro fiducia.

CAPO VII. Paolo miracolosamente risanato — Altre sue fatiche apostoliche — Conversione di Santa Tecla

            I discepoli con altri fedeli, avendo saputo o forse visto ciò che era stato fatto a Paolo, si radunarono intorno al corpo di lui piangendolo come morto. Ma ne furono presto consolati; poiché, sia che Paolo fosse veramente morto, sia che fosse soltanto tutto pesto nella persona, Dio in un istante lo fece ritornare sano e vigoroso come prima, a tal punto che egli poté alzarsi da sé stesso e, attorniato dai discepoli, ritornare alla città di Listra tra quei medesimi che poco prima l’avevano lapidato.
            Ma il giorno seguente, uscito da quella città, passò a Derbe, altra città della Licaonia. Qui predicò Gesù Cristo e fece molte conversioni. Paolo e Barnaba visitarono molte città dove avevano già predicato e, osservando i gravi pericoli cui si trovavano esposti coloro che da poco tempo erano venuti alla fede, ordinarono Vescovi e Sacerdoti che avessero cura di quelle chiese.
            Fra le conversioni operate in questa terza missione di Paolo è molto celebre quella di Santa Tecla. Mentre egli predicava a Iconio, questa giovane andò ad ascoltarlo. In precedenza ella si era dedicata alle belle lettere e allo studio della filosofia profana. Già i suoi parenti l’avevano promessa a un giovane nobile, ricco e molto potente. Trovatasi un giorno ad ascoltare San Paolo mentre predicava intorno al pregio della verginità, si sentì innamorare di questa preziosa virtù. All’udire poi la grande stima che ne aveva fatto il Salvatore e il gran premio che era riservato in cielo a coloro che hanno la bella sorte di conservarla, si sentì ardere dal desiderio di consacrarsi a Gesù Cristo e rinunciare a tutti i vantaggi delle nozze terrene. Al rifiuto di quelle nozze, agli occhi del mondo vantaggiose, i suoi parenti fortemente se ne sdegnarono e, d’accordo con lo sposo, tentarono ogni strada, ogni lusinga per farle cambiare proposito. Tutto inutile: quando un’anima è ferita dall’amore di Dio, ogni sforzo umano non riesce più ad allontanarla dall’oggetto che ama. Infatti i parenti, lo sposo, gli amici, cambiando l’amore in furore, eccitarono i giudici e i magistrati di Iconio contro la santa vergine e dalle minacce passarono ai fatti.
            Ella viene gettata in un serraglio di bestie affamate e feroci; Tecla, unicamente armata della confidenza in Dio, fa il segno della Santa Croce, e quegli animali depongono la loro ferocia e rispettano la sposa di Gesù Cristo. Si accende un rogo entro cui ella è precipitata; ma fatto appena il segno della Croce si estinguono le fiamme ed essa si conserva illesa. Insomma, fu esposta a ogni genere di tormenti e da tutti fu prodigiosamente liberata. Per queste cose le fu dato il nome di protomartire, cioè prima martire tra le donne, come Santo Stefano fu il primo martire tra gli uomini. Ella visse ancora molti anni nell’esercizio delle più eroiche virtù, e morì in pace in età molto avanzata.

CAPO VIII. San Paolo va a conferire con San Pietro — Assiste al Concilio di Gerusalemme — Anno di Cristo 50

            Dopo le fatiche e i patimenti sofferti da Paolo e da Barnaba nella loro terza missione, contenti delle anime che erano riusciti a condurre all’ovile di Gesù Cristo, ritornarono ad Antiochia di Siria. Là raccontarono ai fedeli di quella città le meraviglie operate da Dio nella conversione dei Gentili. Il Santo Apostolo fu ivi consolato con una rivelazione, nella quale Dio gli comandò di recarsi a Gerusalemme per conferire con San Pietro intorno al Vangelo da lui predicato. Dio aveva ciò comandato affinché San Paolo riconoscesse in San Pietro il Capo della Chiesa, e così tutti i fedeli comprendessero come i due principi degli Apostoli predicavano una medesima fede, un solo Dio, un solo battesimo, un solo Salvatore Gesù Cristo.
            Paolo partì in compagnia di Barnaba, conducendo con sé un discepolo di nome Tito, guadagnato alla fede nel corso di questa terza missione. Questi è quel famoso Tito, che divenne modello di virtù, fedele seguace e collaboratore del nostro santo Apostolo e di cui pure avremo molte volte da parlare. Giunti a Gerusalemme si presentarono agli Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, che erano considerati come le principali colonne della Chiesa. Fra le altre cose fu lì convenuto che Pietro con Giacomo e Giovanni si sarebbe applicato in maniera speciale per condurre i Giudei alla fede; Paolo e Barnaba invece si sarebbero dedicati principalmente alla conversione dei Gentili.
            Paolo dimorò quindici giorni in quella città, dopo di che ritornò con i suoi compagni ad Antiochia. Lì trovarono i fedeli molto agitati per una questione derivata dal fatto che i Giudei volevano obbligare i Gentili a sottomettersi alla circoncisione e alle altre cerimonie della legge di Mosè, che era lo stesso che dire che era necessario divenire buon Ebreo per divenire poi buon Cristiano. Le contese andarono tanto oltre che, non potendosi altrimenti acquietare, fu deciso di inviare Paolo e Barnaba a Gerusalemme per consultare il Capo della Chiesa affinché da lui fosse decisa la questione.
            Noi abbiamo già raccontato nella vita di San Pietro come Dio, con una meravigliosa rivelazione, aveva fatto conoscere a questo principe degli Apostoli che i Gentili, venendo alla fede, non erano obbligati alla circoncisione né alle altre cerimonie della legge di Mosè; tuttavia, affinché la volontà di Dio fosse da tutti conosciuta e fosse in modo solenne sciolta ogni difficoltà, Pietro radunò un concilio universale, che fu il modello di tutti i concili che vennero celebrati nei tempi futuri. Lì Paolo e Barnaba esposero lo stato della questione, che fu da San Pietro definita e confermata dagli altri Apostoli nella maniera seguente:
            «Gli Apostoli e gli anziani ai fratelli convertiti dal paganesimo, che dimorano in Antiochia e nelle altre parti della Siria e della Cilicia. Avendo noi inteso che alcuni venuti di qua hanno turbato e angustiato le vostre coscienze con idee arbitrarie, è sembrato bene a noi qui radunati di scegliere e mandare a voi Paolo e Barnaba, uomini a noi carissimi, che hanno sacrificato la loro vita per il nome di nostro Signore Gesù Cristo. Con essi mandiamo Sila e Giuda, i quali consegnandovi le nostre lettere vi confermeranno a voce le medesime verità. Infatti è stato giudicato dallo Spirito Santo e da noi di non imporvi altra legge, eccetto quelle che dovete osservare, cioè astenervi dalle cose sacrificate agli idoli, dalle carni soffocate, dal sangue e dalla fornicazione, dalle quali cose astenendovi farete bene. State in pace.»
            Quest’ultima cosa, cioè la fornicazione, non occorreva proibirla essendo affatto contraria ai dettami della ragione e proibita dal sesto precetto del Decalogo. Fu però rinnovata tale proibizione riguardo ai Gentili, i quali nel culto dei loro falsi dèi pensavano che fosse lecito, anzi cosa gradita a quelle immonde divinità.
            Giunti Paolo e Barnaba con Sila e Giuda ad Antiochia, pubblicarono la lettera con il decreto del concilio, con cui non solo acquietarono il tumulto, ma riempirono i fratelli di allegrezza, riconoscendo ognuno la voce di Dio in quella di San Pietro e del concilio. Sila e Giuda contribuirono molto a quella comune gioia, poiché essendo essi profeti, cioè ripieni dello Spirito Santo e dotati del dono della divina parola e di una grazia particolare per interpretare le divine Scritture, ebbero molta efficacia nel confermare i fedeli nella fede, nella concordia e nei buoni propositi.
            San Pietro, essendo stato informato dei progressi straordinari che il Vangelo faceva in Antiochia, volle anch’egli venire a visitare quei fedeli, cui aveva già per più anni predicato e tra cui aveva per sette anni tenuto la Sede Pontificia. Mentre i due principi degli Apostoli dimoravano in Antiochia, avvenne che Pietro, per compiacere agli Ebrei, praticava alcune cerimonie della legge mosaica; il che era causa di una certa avversione da parte dei Gentili, senza che San Pietro ne fosse consapevole. San Paolo, venuto a conoscenza di questo fatto, avvisò pubblicamente San Pietro, il quale con ammirabile umiltà ricevette l’avviso senza proferire parole di scusa; anzi da allora in poi divenne amicissimo di San Paolo, e nelle sue lettere non soleva chiamarlo con altro nome se non con quello di fratello carissimo. Esempio degno di essere imitato da coloro che in qualche maniera sono avvisati dei loro difetti.

CAPO IX. Paolo si separa da Barnaba — Percorre varie città dell’Asia — Dio lo manda in Macedonia — A Filippi converte la famiglia di Lidia — Anno di Cristo 51

            Paolo e Barnaba predicarono per qualche tempo il Vangelo nella città di Antiochia, adoperandosi persino per diffonderlo nei paesi vicini. Non molto dopo venne a Paolo in mente di visitare le Chiese a cui aveva predicato. Disse pertanto a Barnaba: «Mi pare bene che ritorniamo a rivedere i fedeli di quelle città e terre dove abbiamo predicato, per vedere come vadano le cose di religione tra loro». Nulla stava più a cuore a Barnaba, e perciò fu subito d’accordo con il Santo Apostolo; ma gli propose di condurre con sé anche quel Giovanni Marco che li aveva seguiti nella precedente missione e li aveva poi lasciati a Perga. Forse egli desiderava cancellare la macchia che si era fatto in quell’occasione, perciò voleva di nuovo essere in loro compagnia. San Paolo non giudicava così: «Tu vedi», diceva a Barnaba, «che costui non è uomo da potersi fidare: certamente ti ricordi come, giunti a Perga della Panfilia, ci abbandonò». Barnaba insisteva dicendo che si poteva accogliere, e adduceva buone ragioni. Non potendo i due Apostoli andare d’accordo, decisero di separarsi l’uno dall’altro e andare per strade diverse.
            Così Dio fece servire questa diversità di sentimento a sua maggior gloria; perché, separati, portavano la luce del Vangelo in più luoghi, cosa che non avrebbero fatto andando entrambi insieme.
            Barnaba andò con Giovanni Marco nell’isola di Cipro e visitò quelle Chiese dove aveva con San Paolo predicato nella precedente missione. Questo Apostolo lavorò molto per diffondere la fede di Gesù Cristo e finalmente fu coronato del martirio in Cipro, sua patria. Giovanni Marco questa volta fu costante, e lo vedremo poi fedele compagno di San Paolo, che ebbe a lodare molto lo zelo e la carità di lui.
            San Paolo prese con sé Sila, colui che gli era stato posto per compagno a portare gli atti del concilio di Gerusalemme ad Antiochia, intraprese il suo quarto viaggio e andò a visitare varie Chiese da lui fondate. Si recò dapprima a Derbe, poi a Listra, dove qualche tempo addietro il Santo Apostolo era stato lasciato per morto. Ma Dio volle questa volta compensarlo di quanto aveva prima sofferto.
            Egli trovò lì un giovane da lui convertito nell’altra missione, di nome Timoteo. Paolo aveva già conosciuto la bell’indole di questo discepolo e nell’animo suo aveva deciso di farne un collaboratore del Vangelo, cioè consacrarlo sacerdote e prenderlo come compagno nei suoi lavori apostolici. Prima però di conferirgli la sacra ordinazione, Paolo chiese informazioni ai fedeli di Listra e trovò che tutti elogiavano questo buon giovane magnificando la sua virtù, la modestia, il suo spirito di preghiera; e ciò dicevano non solo quelli di Listra, ma perfino quelli di Iconio e delle altre città vicine, e tutti presagivano in Timoteo uno zelante sacerdote e un santo vescovo.
            A queste luminose testimonianze Paolo non ebbe più alcuna difficoltà nel consacrarlo sacerdote. Paolo dunque, preso con sé Timoteo e Sila, continuò la visita delle Chiese, raccomandando a tutti di osservare e tenersi fermi alle decisioni del concilio di Gerusalemme. Così avevano fatto quelli di Antiochia, e così fecero in ogni tempo i predicatori del Vangelo per assicurare i fedeli di non cadere in errore: stare ai decreti, agli ordini dei concili e del Romano Pontefice successore di San Pietro.
            Paolo con i suoi compagni attraversò la Galazia e la Frigia per portare il Vangelo in Asia, ma lo Spirito Santo glielo vietò.
            Per facilitare la comprensione delle cose che stiamo per raccontare, è bene qui notare di passaggio come per la parola Asia in senso largo si intenda una delle tre parti del mondo. Si suole poi appellare Asia Maggiore tutta l’estensione dell’Asia, ad eccezione di quella parte che si chiama Asia Minore, oggi Anatolia, che è quella penisola compresa fra il Mar di Cipro, l’Egeo e il Mar Nero. Fu anche chiamata Asia Proconsolare una parte dell’Asia Minore più o meno estesa secondo il numero delle province affidate al governo del proconsole romano. Qui per Asia, dove progettava di andare San Paolo, si intende una porzione dell’Asia Proconsolare, posta attorno a Efeso e compresa fra il monte Tauro, il Mar Nero e la Frigia.
            San Paolo allora pensò di andare in Bitinia, che è un’altra provincia dell’Asia Minore un po’ più verso il Mar Nero; ma neppure ciò gli fu permesso da Dio. Perciò ritornò indietro e andò a Troade, che è una città e provincia dove anticamente era una famosa città chiamata Troia. Dio aveva riservato ad altro tempo la predicazione del Vangelo a quei popoli; per ora lo voleva inviare ad altri paesi.
            Mentre San Paolo era a Troade, gli apparve un angelo vestito da uomo secondo l’uso dei Macedoni, il quale, stando in piedi davanti a lui, si mise a pregarlo così: «Deh! abbi pietà di noi; passa in Macedonia e vieni in nostro soccorso». Da questa visione San Paolo conobbe la volontà del Signore e senza indugio si preparò a passare il mare per recarsi in Macedonia.
            A Troade si unì a San Paolo un suo cugino di nome Luca, che gli riuscì di grande aiuto nelle sue fatiche apostoliche. Egli era un medico di Antiochia, di grande ingegno, che scriveva con purezza ed eleganza il greco. Egli fu per Paolo quello che San Marco era per San Pietro; e al pari di lui scrisse il Vangelo che noi leggiamo sotto il nome di Vangelo secondo Luca. Anche il libro intitolato Atti degli Apostoli, da cui noi ricaviamo quasi tutte le cose che diciamo di San Paolo, è opera di San Luca. Da quando si unì come compagno del nostro Apostolo, non vi fu più né pericolo, né fatica, né patimento che abbia potuto scuotere la sua costanza.
            Paolo dunque, secondo l’avviso dell’angelo, insieme con Sila, Timoteo e Luca, s’imbarcò da Troade, navigò l’Egeo (che divide l’Europa dall’Asia) e con prospera navigazione arrivò all’isola di Samotracia, quindi a Neapoli, non la capitale del Regno di Napoli ma una piccola città sul confine della Tracia e della Macedonia. Senza arrestarsi, l’Apostolo andò direttamente a Filippi, città principale, così nominata perché fu edificata da un re di quel paese chiamato Filippo. Lì si fermarono per qualche tempo.
            In quella città gli Ebrei non avevano sinagoga, sia perché ne fossero proibiti, sia perché fossero troppo pochi di numero. Avevano solo una proseuca, ovvero luogo di preghiera, che noi chiamiamo oratorio. In giorno di sabato Paolo con i suoi compagni uscì dalla città sulla riva di un fiume dove trovarono una proseuca con dentro alcune donne. Si misero subito a predicare il regno di Dio a quella semplice udienza. Una mercante di nome Lidia fu la prima ad essere chiamata da Dio; così essa e la sua famiglia ricevettero il Battesimo.
            Questa pia donna, grata ai benefici ricevuti, così pregò i maestri e i padri dell’anima sua: «Se voi mi giudicate fedele a Dio, non mi negate una grazia dopo quella del Battesimo che da voi riconosco. Venite in casa mia, dimorate quanto vi piace e consideratela come vostra». Paolo non voleva acconsentire; ma ella fece tali insistenze che egli dovette accettare. Ecco il frutto che produce la parola di Dio, quando è bene ascoltata. Essa genera la fede; ma deve essere udita e spiegata dai sacri ministri, come diceva lo stesso San Paolo: «Fides ex auditu, auditus autem per verbum Christi» (La fede viene dall’ascolto, e l’ascolto riguarda la parola di Cristo).

CAPO X. San Paolo libera una fanciulla dal demonio — È battuto con verghe — Viene posto in prigione — Conversione del carceriere e della sua famiglia — Anno di Cristo 51

            San Paolo con i suoi compagni andavano qua e là spargendo il seme della parola di Dio per la città di Filippi. Un giorno, andando alla proseuca, incontrarono una pitonessa, che noi diremmo maga o strega. Ella aveva addosso un demonio che parlava per bocca sua e indovinava molte cose straordinarie; il che dava molto vantaggio ai suoi padroni, poiché la gente ignorante andava a consultarla e per farsi predire il futuro doveva pagare bene i consulti. Costei dunque si mise a seguire San Paolo e i suoi compagni, gridando loro dietro così: “Questi uomini sono servi dell’Altissimo Dio; essi vi mostrano la strada della salvezza.” San Paolo la lasciò dire senza dir nulla, finché, annoiato e sdegnato, si volse a quello spirito maligno che parlava per bocca di lei e disse in tono minaccioso: “In nome di Gesù Cristo ti comando che tu esca immediatamente da questa fanciulla.” Il dire e il fare fu una cosa sola, perché, costretto dalla potente virtù del nome di Gesù Cristo, dovette uscire da quel corpo, e per la sua partenza la maga rimase senza magia.
            Voi, o lettori, comprenderete la ragione per cui il demonio lodava San Paolo, e questo santo Apostolo ne abbia rifiutato le lodi. Lo spirito maligno voleva che San Paolo lo lasciasse in pace, e così la gente credesse che fosse la medesima dottrina quella di San Paolo e le indovinazioni di quella indemoniata. Il santo Apostolo volle dimostrare che non vi era alcun accordo tra Cristo e il demonio, e rifiutando le sue adulazioni dimostrò quanto fosse grande la potenza del nome di Gesù Cristo sopra tutti gli spiriti dell’inferno.
            I padroni di quella fanciulla, avendo visto che con il demonio era andata ogni speranza di guadagno, si sdegnarono fortemente contro San Paolo e, senza aspettare sentenza alcuna, presero lui e i suoi compagni e li condussero al Palazzo della Giustizia. Giunti alla presenza dei giudici dissero: “Questi uomini di razza ebrea mettono sottosopra la nostra città per introdurre una religione nuova, che certamente è un sacrilegio.” Il popolo, sentendo che era offesa la religione, montò in furore e si scagliò contro di loro da tutte le parti.
            I giudici si mostrarono pieni di sdegno e, stracciandosi di dosso le vesti, senza fare alcun processo, senza esaminare se vi fosse delitto o no, li fecero battere fieramente con verghe e, quando furono o sazi o stanchi di batterli, ordinarono che Paolo e Sila venissero condotti in prigione, imponendo al carceriere di guardarli con la massima diligenza. Costui non solo li rinchiuse nella prigione, ma per maggior sicurezza strinse i loro piedi tra i ceppi. Quei santi uomini, nell’orrore del carcere, coperti di piaghe, lungi dal lamentarsi, giubilavano di allegrezza e durante la notte andavano cantando lodi a Dio. Gli altri prigionieri ne erano meravigliati.
            Era la mezzanotte e cantavano tuttora e benedicevano Dio, quando d’improvviso si sente un fortissimo terremoto, che con orribile scroscio fa tremare fin dalle fondamenta quell’edificio. A questa scossa cadono le catene ai prigionieri, si rompono i loro ceppi, le porte delle prigioni si aprono e tutti i detenuti si trovano posti in libertà. Si destò il carceriere e, correndo per sapere cosa fosse avvenuto, trovò aperte le porte. Allora egli, non dubitando che i prigionieri fossero fuggiti, e perciò forse egli stesso dovesse pagarla con la testa, nell’eccesso della disperazione corre, sfodera una spada, l’appunta al petto e già sta per uccidersi. Paolo, o per il chiarore della luna o al lume di qualche lampada, veduto quell’uomo in tal atto di disperazione, “Fermati!”, si pose a gridare, “Non farti alcun male, eccoci siamo qui tutti.” Rassicurato a queste parole si tranquillizza un po’ e, fattosi portare lume, entrò nel carcere e trova i prigionieri ciascuno al suo posto. Preso da meraviglia e mosso da un interiore lume della grazia di Dio, tutto tremante si getta ai piedi di Paolo e di Sila dicendo: “Signori, che devo fare per essere salvato?”
            Ognuno può immaginarsi quanta allegrezza abbia provato Paolo nel suo cuore a tali parole! Egli si volse a lui e rispose: “Credi nel Figlio di Dio Gesù Cristo, e sarai salvo tu e tutta la tua famiglia.”
            Quel buon uomo, senza indugio, condusse in casa i santi prigionieri, lavò loro le piaghe con quell’amore e riverenza che avrebbe fatto a suo padre. Radunata poi la sua famiglia, furono ammaestrati nella verità della fede. Ascoltando essi con umiltà di cuore la parola di Dio, impararono in breve quanto era necessario per diventare cristiani. Così San Paolo, vedendoli pieni di fede e della grazia dello Spirito Santo, tutti li battezzò. Quindi si posero a ringraziare Dio dei benefici ricevuti. Quei nuovi fedeli, vedendo Paolo e Sila sfiniti e cadenti per le battiture e per il lungo digiuno, corsero subito a preparare loro la cena con la quale furono ristorati. I due Apostoli provarono maggior conforto per le anime che avevano guadagnate a Gesù Cristo; perciò, pieni di gratitudine verso Dio, ritornarono in prigione aspettando quelle disposizioni che la divina Provvidenza avrebbe fatto conoscere a loro riguardo.
            Intanto i magistrati si pentirono di aver fatto battere e chiudere in prigione coloro ai quali non avevano potuto trovare colpa di sorta, e mandarono alcuni uscieri a dire al carceriere che lasciasse in libertà i due prigionieri. Lietissimo di tale notizia, il carceriere corse subito a comunicarla agli Apostoli. “Voi”, disse, “potete sicuramente andarvene in pace.” Ma a Paolo sembrò doversi fare altrimenti. Se fossero così di nascosto fuggiti, si sarebbe creduto essere loro colpevoli di grave misfatto, e ciò con danno del Vangelo. Egli pertanto chiamò a sé gli uscieri e disse loro: “I vostri magistrati, senza aver cognizione di questa causa, senza alcuna forma di giudizio, hanno pubblicamente fatto battere noi che siamo cittadini romani; ed ora di nascosto ci vogliono mandar via. Certo non sarà così: vengano essi stessi e ci conducano fuori della prigione.” Quei messi portarono ai magistrati questa risposta; i quali, avendo inteso che erano cittadini romani, furono presi da forte timore, perché il battere un cittadino romano era delitto capitale. Per la qual cosa vennero subito alla prigione e con benigne parole si scusarono di quanto avevano fatto e, traendoli onoratamente dalla prigione, li pregarono di voler uscire dalla città. Gli Apostoli si recarono subito alla casa di Lidia, dove trovarono i compagni immersi in costernazione a causa loro; e ne furono grandemente consolati al vederli posti in libertà. Dopo di che partirono dalla città di Filippi. Così quei cittadini rigettarono le grazie del Signore per le grazie degli uomini.

CAPO XI. San Paolo predica a Tessalonica — Affare di Giasone — Va a Berea dove è di nuovo disturbato dagli Ebrei — Anno di Cristo 52

            Paolo con i suoi compagni partì da Filippi lasciando lì le due famiglie di Lidia e del carceriere guadagnate a Gesù Cristo. Passando per le città di Anfipoli e di Apollonia pervenne a Tessalonica, città principale della Macedonia, molto famosa per il suo commercio e per il suo porto sull’Egeo. Oggigiorno è detta Salonicco.
            Lì Dio aveva preparato al santo Apostolo molti patimenti e molte anime da guadagnare a Cristo. Egli si mise a predicare e per tre sabati continuò a provare con le Sacre Scritture che Gesù Cristo era il Messia, il Figlio di Dio, che le cose a lui avvenute erano state annunciate dai Profeti; perciò doveva o rinunciare alle profezie o credere alla venuta del Messia. A tale predicazione alcuni credettero ed abbracciarono la fede; ma altri, specialmente Ebrei, si mostrarono ostinati e con grande odio si levarono contro San Paolo. Postisi alla testa di alcuni malvagi della feccia del popolo, si radunarono e, a gruppi, misero a rumore tutta la città. E poiché Sila e Paolo avevano preso alloggio presso un certo Giasone, corsero tumultuando alla casa di lui per trarli fuori e condurli dinanzi al popolo. I fedeli se ne accorsero per tempo e riuscirono a farli fuggire. Non potendoli più trovare, presero Giasone insieme con alcuni fedeli e li trascinarono dinanzi ai magistrati della città, gridando a gran voce: “Questi turbatori del genere umano sono venuti anche qua da Filippi; e Giasone li ha accolti in casa sua; ora costoro trasgrediscono i decreti e violano la maestà di Cesare affermando esservi un altro Re, cioè Gesù Nazareno.” Queste parole riscaldarono i Tessalonicesi e fecero montare in furore i medesimi magistrati. Ma Giasone, avendoli assicurati che non si volevano fare tumulti e che, qualora avessero chiesto quei forestieri, egli li avrebbe loro presentati, si mostrarono soddisfatti e si placò il tumulto. Ma Sila e Paolo, vedendo inutile ogni fatica in quella città, seguirono i consigli dei fratelli e si recarono a Berea, altra città di quella provincia.
            A Berea Paolo si mise a predicare nella sinagoga degli Ebrei, cioè si pose nello stesso pericolo da cui poco prima era stato quasi per miracolo liberato. Ma questa volta il suo coraggio fu largamente ricompensato. I Bereani con grandissima avidità ascoltarono la parola di Dio. Paolo allegava sempre quei passi della Bibbia che riguardavano Gesù Cristo, e gli uditori correvano subito a riscontrarli e a verificare i testi da lui citati; e trovandoli corrispondere con esattezza, si piegavano alla verità e credevano al Vangelo. Così faceva il Salvatore con gli Ebrei della Palestina quando li invitava a leggere attentamente le Sacre Scritture: Scrutamini Scripturas, et ipsae testimonium perhibent de me (Esaminate le Scritture, e esse stesse testimoniano di me).
            Tuttavia, le conversioni avvenute a Berea non poterono rimanere nascoste tanto che non ne pervenisse notizia a quelli di Tessalonica. Gli ostinati Ebrei di questa città corsero in gran numero a Berea per guastare l’opera di Dio e impedire la conversione dei Gentili. San Paolo era principalmente cercato come colui che sosteneva in particolare la predicazione. I fratelli, vedendolo in pericolo, lo fecero accompagnare segretamente fuori della città da persone fidate e, per vie sicure, lo condussero ad Atene. Rimasero però a Berea Sila e Timoteo. Ma Paolo, nel congedare coloro che l’avevano accompagnato, raccomandò loro con premura che dicessero a Sila e a Timoteo di raggiungerlo il più presto possibile. I santi Padri, nell’ostinazione degli Ebrei di Tessalonica, ravvisano quei Cristiani i quali, non paghi di non approfittare essi stessi dei benefici della religione, cercano allontanarne gli altri, cosa che fanno o calunniando i sacri ministri o disprezzando le cose della medesima religione. Il Salvatore dice a costoro: “A voi sarà tolta la mia vigna”, cioè la mia religione, “e sarà data ad altri popoli che la coltiveranno meglio di voi e riporteranno frutti a suo tempo.” Minaccia terribile, ma che purtroppo si è già avverata e si va avverando in molti paesi, dove un tempo fioriva la cristiana religione, i quali presentemente vediamo immersi nelle folte tenebre dell’errore, del vizio e del disordine. — Dio ci scampi da questo flagello!

CAPO XII. Stato religioso degli Ateniesi — San Paolo nell’Areopago — Conversione di San Dionigi — Anno di Cristo 52

            Atene era una delle più antiche, più ricche, più commercianti città del mondo. Lì la scienza, il valore militare, i filosofi, gli oratori, i poeti furono sempre i maestri del genere umano. Gli stessi Romani avevano mandato in Atene per raccogliere leggi che portarono a Roma come oracoli di saggezza. Vi era inoltre un senato di uomini considerati specchio di virtù, giustizia e prudenza; essi erano chiamati Areopagiti, dall’Areopago, luogo dove avevano il tribunale. Ma con tanta scienza giacevano immersi nella vergognosa ignoranza delle cose di religione. Le sette dominanti erano quelle degli Epicurei e quella degli Stoici. Gli Epicurei negavano a Dio la creazione del mondo e la provvidenza, né ammettevano premio o pena nell’altra vita, perciò ponevano la beatitudine nei piaceri della terra. Gli Stoici riponevano il sommo bene nella sola virtù e facevano l’uomo in alcune cose maggiore del medesimo Dio, perché credevano di avere la virtù e la sapienza da sé stessi. Tutti poi adoravano più dèi, e non vi era delitto che non fosse favorito da qualche insensata divinità.
            San Paolo, uomo oscuro, tenuto a vile perché Giudeo, doveva a costoro predicare Gesù Cristo, anche Giudeo morto in croce, e ridurli ad adorarlo come vero Dio. Perciò solo Dio poteva fare che le parole di San Paolo potessero cambiare cuori così inveterati nel vizio e alieni dalla vera virtù, e fare che abbracciassero e professassero la santa religione cristiana.
            Mentre Paolo stava aspettando Sila e Timoteo, provava nel suo cuore compassione per quei miseri ingannati e, secondo il solito, si metteva a disputare con gli Ebrei e con tutti quelli che si abbattevano in lui ora nelle sinagoghe, ora nelle piazze. Gli Epicurei e gli Stoici vennero anch’essi con lui a disputare e, non potendo resistere alle ragioni, andavano dicendo: “Che vorrà dire questo ciurmatore?” Altri dicevano: “Pare che costui ci voglia mostrare qualche nuovo Dio.” Il che dicevano perché udivano nominare Gesù Cristo e la resurrezione. Alcuni altri, volendo operare con maggior prudenza, invitarono Paolo a recarsi nell’Areopago. Come giunse in quel magnifico senato, gli dissero: “Si potrebbe sapere qualcosa di questa tua nuova dottrina? Poiché tu ci suoni all’orecchio cose mai da noi udite. Desideriamo sapere la realtà di quanto insegni.”
            Alla notizia che un forestiero doveva parlare nell’Areopago accorse gran calca di gente.
            Conviene qui notare che fra gli Ateniesi era severamente proibito dire la minima parola contro le loro innumerevoli e stupide divinità, e reputavano delitto capitale il ricevere o aggiungere tra di loro qualche dio forestiero, che non fosse attentamente esaminato e proposto dal senato. Due filosofi, di nome Anassagora l’uno, Socrate l’altro, solo per aver lasciato intendere che non potevano ammettere tante ridicole divinità, dovettero perdere la vita. Da queste cose si intende facilmente il pericolo in cui era San Paolo predicando il vero Dio a quella terribile assemblea e cercando di atterrare tutti i loro dèi.
            Il santo Apostolo, dunque, vedendosi in quell’augusto senato e dovendo parlare ai più sapienti degli uomini, giudicò bene di prendere uno stile e un modo di ragionare assai più elegante che non faceva. E poiché quei senatori non ammettevano l’argomento delle Scritture, egli pensò di farsi strada a parlare con la forza della ragione. Levatosi pertanto in piedi e fattosi da tutti silenzio, incominciò:
            «Uomini Ateniesi, io vi vedo in tutte le cose religiosi fino allo scrupolo. Perché, passando per questa città e considerando i vostri simulacri, ho trovato anche un altare con questa iscrizione: Al Dio Ignoto. Io dunque vengo ad annunciarvi quel Dio che voi adorate senza conoscere. Egli è quel Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che in esso esistono. Egli è il padrone del cielo e della terra, perciò non abita in templi fatti dagli uomini. Né egli è servito dalle mani dei mortali quasi avesse bisogno di loro; che anzi egli è colui che dà a tutti la vita, il respiro e tutte le cose. Egli fece che da un uomo solo discendessero tutti gli altri, la cui discendenza si estese ad abitare tutta la terra; Egli fissò i tempi e i confini della loro abitazione, perché cercassero Dio se mai lo avessero potuto trovare, quantunque Egli non sia lontano da noi.
            «Perché in lui viviamo, ci muoviamo e siamo, come anche taluno dei vostri poeti (Arato, famoso poeta della Cilicia) ha detto: “Perché siamo anche sua discendenza”. Essendo dunque noi discendenza di Dio, non dobbiamo stimare che Egli sia simile all’oro o all’argento o alla pietra scolpita dall’arte o dall’invenzione degli uomini. Dio però nella sua misericordia chiuse gli occhi per il passato sopra tale ignoranza; ma adesso intima che facciamo penitenza. Poiché Egli ha fissato un giorno in cui giudicherà con giustizia tutto il mondo per mezzo di un uomo stabilito da Lui, come ne ha dato prova a tutti risuscitandolo dai morti».
            Fino a questo punto quegli uditori leggeri, i cui vizi ed errori erano stati attaccati con molta finezza, avevano serbato buon contegno. Ma al primo annuncio del dogma straordinario della resurrezione, gli Epicurei si alzarono e in gran parte uscirono beffandosi di quella dottrina che certamente a loro incuteva terrore. Altri più discreti gli dissero che per quel giorno bastava, e che lo avrebbero ascoltato un’altra volta sul medesimo argomento. A questo modo fu accolto il più eloquente degli Apostoli da quella superba assemblea. Differirono di approfittare della grazia di Dio; questa grazia non leggiamo che sia poi stata da Dio loro concessa un’altra volta.
            Dio però non lasciò di consolare il suo servo col guadagno di alcune anime privilegiate. Fra le altre fu Dionigi, uno dei giudici dell’Areopago, e una donna di nome Damaris che si crede sua moglie. Di questo Dionigi si racconta che alla morte del Salvatore, rimirando quell’eclisse per cui le tenebre si erano sparse sopra tutta la terra, esclamò: “O il mondo si sfascia, o l’autore della natura patisce violenza.” Appena egli poté conoscere la causa di quell’avvenimento, si arrese subito alle parole di San Paolo. Si racconta pure che, essendo andato a visitare la Madre di Dio, ne fu così sorpreso da tanta bellezza e maestà, che si prostrò a terra per venerarla, asserendo che l’avrebbe adorata come una divinità se la fede non lo avesse accertato esserci un solo Dio. Egli venne poi da San Paolo consacrato vescovo di Atene e morì coronato del martirio.

CAPO XIII. San Paolo a Corinto — Sua dimora in casa di Aquila — Battesimo di Crispo e di Sostene — Scrive ai Tessalonicesi — Ritorno ad Antiochia — Anno di Gesù Cristo 53-54

            Se Atene era la città più celebre per la scienza, Corinto era considerata la prima per il commercio. Là convergevano mercanti da tutte le parti. Aveva due porti sull’istmo del Peloponneso: uno chiamato Cencrea che guardava l’Egeo, l’altro detto Lecheo che si affacciava sull’Adriatico. Il disordine e l’immoralità vi erano portati al trionfo. Nonostante tali ostacoli, San Paolo, appena giunto in questa città, si mise a predicare in pubblico e in privato.
            Egli prese alloggio in casa di un Giudeo di nome Aquila. Costui era un fervente cristiano che, per evitare la persecuzione pubblicata dall’imperatore Claudio contro i Cristiani, era fuggito dall’Italia con sua moglie di nome Priscilla ed era venuto a Corinto. Esercitavano l’arte medesima che Paolo da giovane aveva appreso, cioè fabbricavano tende per uso dei soldati. Per non essere di nuovo di peso ai suoi ospiti, il santo Apostolo si dedicava anch’egli al lavoro e trascorreva nella bottega tutto il tempo che gli rimaneva libero dal sacro ministero. Ogni sabato, però, si recava alla sinagoga e si sforzava di far conoscere agli Ebrei che le profezie riguardanti il Messia avevano avuto adempimento nella persona di Gesù Cristo.
            Giunsero frattanto Sila e Timoteo da Berea. Essi erano partiti per Atene, dove avevano appreso che Paolo ne era già partito, e lo raggiunsero a Corinto. Al loro arrivo, Paolo si diede con maggior coraggio a predicare agli Ebrei; ma crescendo ogni giorno la loro ostinazione, Paolo, non potendo più sopportare tante bestemmie e tale abuso di grazie, così mosso da Dio annunciò loro imminenti i divini flagelli con queste parole: «Il vostro sangue ricada su di voi; io ne sono innocente. Ecco che io mi rivolgo ai Gentili, e in avvenire sarò tutto per essi».
            Tra gli Ebrei che bestemmiavano Gesù Cristo, forse vi erano alcuni che lavoravano nella bottega di Aquila; perciò l’Apostolo, al fine di evitare la compagnia dei malvagi, abbandonò la casa di lui e si trasferì presso un certo Tito Giusto, da poco tempo convertito dal paganesimo alla fede. Vicino a Tito dimorava un certo Crispo, capo della sinagoga. Costui, istruito dall’Apostolo, abbracciò la fede con tutta la sua famiglia.
            Le grandi occupazioni di Paolo a Corinto non gli fecero dimenticare i suoi diletti fedeli di Tessalonica. Quando Timoteo giunse da lì, gli aveva raccontato grandi cose del fervore di quei cristiani, della loro grande carità, della buona memoria che conservavano di lui e dell’ardente desiderio di rivederlo. Non potendo Paolo recarsi di persona, come desiderava, scrisse loro una lettera, che si crede essere la prima lettera scritta da San Paolo.
            In questa lettera egli si rallegra molto con i Tessalonicesi della loro fede e della loro carità, poi li esorta a guardarsi dai disordini sensuali e da ogni frode. E siccome l’ozio è la sorgente di tutti i vizi, così egli li incoraggia a dedicarsi seriamente al lavoro, reputando indegno di mangiare chi non vuole lavorare: Si quis non vult operari nec manducet. (Se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi). Conclude poi ricordando loro il grande premio che Dio tiene preparato in cielo per la minima fatica sopportata nella vita presente per amore di Lui.
            Poco dopo questa lettera ebbe altre notizie dei medesimi fedeli di Tessalonica. Erano essi grandemente inquieti per alcuni impostori che andavano predicando imminente il giudizio universale. L’Apostolo scrisse loro una seconda lettera, avvisandoli di non lasciarsi ingannare dai loro fallaci discorsi. Nota essere certo il giorno del giudizio universale, ma prima devono apparire moltissimi segni, tra i quali la predicazione del Vangelo in tutta la terra. Li esorta a tenersi fermi alle tradizioni che aveva loro comunicate per lettera e a viva voce. Infine si raccomanda alle loro preghiere e insiste molto nel fuggire i curiosi e gli oziosi, che sono considerati come la peste della religione e della società.
            Mentre San Paolo confortava i fedeli di Tessalonica, insorsero contro di lui tali persecuzioni che si sarebbe indotto a fuggire da quella città se non fosse stato da Dio confortato con una visione. Gli apparve Gesù Cristo e gli disse: «Non temere, io sono con te, nessuno potrà farti alcun male; in questa città è grande il numero di coloro che per tuo mezzo si convertiranno alla fede». Incoraggiato da tali parole, l’Apostolo dimorò a Corinto diciotto mesi.
            La conversione di Sostene fu tra quelle che recarono grande consolazione all’animo di Paolo. Egli era succeduto a Crispo nella carica di capo della sinagoga. La conversione di questi due principali esponenti della loro setta irritò fieramente i Giudei, e nel loro furore presero l’Apostolo e lo condussero dal proconsole, accusandolo d’insegnare una religione contraria a quella dei Giudei. Gallione, tale è il nome di quel governatore, udendo che si trattava di cose di religione, non volle mischiarsi a farla da giudice. Si limitò a rispondere così: «Se si trattasse di qualche ingiustizia o di qualche pubblico misfatto, vi ascolterei volentieri; ma trattandosi di questioni appartenenti alla religione, pensateci voi altri, io non intendo giudicare in queste materie». Quel proconsole riteneva che le questioni e le differenze riguardanti la religione dovessero essere discusse dai sacerdoti e non dalle autorità civili, e per questo fu saggia la sua risposta.
            Sdegnati i Giudei di tale ripulsa, si rivolsero contro Sostene, eccitarono anche i ministri del tribunale a unirsi con loro per batterlo sotto gli occhi del medesimo Gallione, senza che egli li proibisse. Sostene tollerò con invitta pazienza quell’affronto e, appena lasciato in libertà, si unì a Paolo e gli divenne compagno fedele nei suoi viaggi.
            Vedendosi Paolo come per miracolo liberato da così grave burrasca, fece a Dio un voto in rendimento di grazie. Quel voto era simile a quello dei Nazirei, il quale consisteva particolarmente nell’astenersi per un dato tempo dal vino e da qualunque altra cosa atta a ubriacare, e nel lasciarsi crescere i capelli, il che presso gli antichi era segno di lutto e di penitenza. Quando era per terminare il tempo del voto, si doveva fare un sacrificio nel tempio con varie cerimonie prescritte dalla legge di Mosè.
            Adempiuta una parte del suo voto, San Paolo, in compagnia di Aquila e Priscilla, si imbarcò alla volta di Efeso, città dell’Asia Minore. Secondo il suo costume, Paolo andò a visitare la sinagoga e disputò più volte con gli Ebrei. Pacifiche furono queste dispute, anzi gli Ebrei lo invitarono a fermarsi di più; ma Paolo voleva proseguire il suo viaggio per trovarsi a Gerusalemme e compiere il suo voto. Diede però parola a quei fedeli di ritornarvi, e quasi per caparra del suo ritorno lasciò presso di loro Aquila e Priscilla. Da Efeso, San Paolo si imbarcò per la Palestina e giunse a Cesarea, dove sbarcando si incamminò a piedi verso Gerusalemme. Andò a visitare i fedeli di questa Chiesa e, adempiute le cose per le quali aveva intrapreso il viaggio, venne ad Antiochia, dove fece qualche tempo di dimora.
            Tutto è degno di ammirazione in questo grande Apostolo. Notiamo qui solamente una cosa che egli caldamente raccomanda ai fedeli di Corinto. Per dare loro un importante avviso su come mantenersi fermi nella fede, scrive: Itaque, fratres, state, et tenete traditiones quas didicistis sive per sermonem sive per epistolam nostram (Fratelli, per non cadere nell’errore, tenetevi alle tradizioni imparate dal mio discorso e dalla mia lettera). Con queste parole, San Paolo comandava di avere la medesima riverenza per la parola di Dio scritta e per la parola di Dio tramandata per tradizione, come insegna la Chiesa Cattolica.

CAPO XIV. Apollo a Efeso — Il sacramento della Cresima — San Paolo opera molti miracoli — Fatto di due esorcisti Ebrei — Anno di Cristo 55

            San Paolo dimorò qualche tempo ad Antiochia, ma vedendo quei fedeli abbastanza provvisti di sacri pastori, decise di partire per visitare di nuovo i paesi dove aveva già predicato. Questo è il quinto viaggio del nostro santo Apostolo. Egli andò in Galazia, nel Ponto, in Frigia e in Bitinia; poi, secondo la promessa fatta, ritornò a Efeso dove Aquila e Priscilla lo aspettavano. Ovunque fu accolto, come scrive egli stesso, quale angelo di pace.
            Tra la partenza e il ritorno di Paolo a Efeso, si recò in questa città un Giudeo di nome Apollo. Egli era un uomo eloquente e profondamente istruito nella Sacra Scrittura. Adorava il Salvatore e lo predicava anche con zelo, ma non conosceva altro battesimo se non quello predicato da San Giovanni Battista. Aquila e Priscilla si accorsero che aveva un’idea assai confusa dei Misteri della Fede e, chiamandolo a sé, lo istruirono meglio nella dottrina, vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo.
            Desideroso di portare la parola di salvezza ad altri popoli, decise di passare in Acaia, cioè in Grecia. Gli Efesini, che da qualche tempo ammiravano le sue virtù e cominciavano ad amarlo come padre, vollero accompagnarlo con una lettera in cui lodavano molto il suo zelo e lo raccomandavano ai Corinzi. Egli infatti fece gran bene a quei cristiani. Quando l’Apostolo giunse a Efeso, trovò parecchi fedeli istruiti da Apollo e, volendo conoscere lo stato di queste anime, domandò se avevano ricevuto lo Spirito Santo; vale a dire se avevano ricevuto il sacramento della Cresima, che si soleva in quei tempi amministrare dopo il battesimo, e in cui si conferiva la pienezza dei doni dello Spirito Santo. Ma quella buona gente rispose: «Noi non sappiamo nemmeno che vi sia uno Spirito Santo». Meravigliato l’Apostolo di tale risposta e, avendo inteso che avevano ricevuto soltanto il battesimo di San Giovanni Battista, comandò che fossero nuovamente battezzati col battesimo di Gesù Cristo, cioè nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Dopo di che, Paolo, imponendo le mani, amministrò loro il sacramento della Cresima, e quei nuovi fedeli ricevettero non solo gli effetti invisibili della grazia, ma anche segni particolari e manifesti dell’onnipotenza divina, il che rendevano manifesto parlando speditamente le lingue che prima non intendevano, predicendo le cose future e interpretando la Sacra Scrittura.
            San Paolo predicò per tre mesi nella sinagoga, esortando gli Ebrei a credere in Gesù Cristo. Molti credettero, ma parecchi, mostrandosi ostinati, bestemmiavano perfino il santo nome di Gesù Cristo. Paolo, per l’onore del Vangelo deriso da questi empi e per fuggire la compagnia dei malvagi, cessò di predicare nella sinagoga, ruppe ogni comunicazione con loro e si ritirò a casa di un gentile cristiano di nome Tiranno, che faceva il maestro di scuola. San Paolo fece di quella scuola una Chiesa di Gesù Cristo, dove, predicando e spiegando le verità della fede, attirava Gentili ed Ebrei da tutte le parti dell’Asia.
            Dio aiutava la sua opera confermando con prodigi inauditi la dottrina predicata dal suo servo. I panni, i fazzoletti e le fasce che avevano toccato il corpo di Paolo venivano portati qua e là e posti sugli infermi e sugli indemoniati, e ciò bastava perché subito fuggissero le malattie e gli spiriti immondi. Fu questa una meraviglia mai udita, e Dio volle certamente che un tal fatto fosse registrato nella Bibbia per confondere coloro che hanno tanto declamato e tuttora declamano contro la venerazione che i Cattolici prestano alle sacre reliquie. Forse vogliono essi condannare di superstizione quei primi cristiani, i quali applicavano sugli ammalati i fazzoletti che avevano toccato il corpo di Paolo? Cose che San Paolo non aveva mai proibito e che Dio dimostrava di approvare con miracoli?
            A proposito dell’invocazione del nome di Gesù Cristo per fare miracoli, avvenne un fatto assai curioso. Tra gli Efesini vi erano molti che pretendevano di cacciare i demoni dai corpi con certe parole magiche oppure usando radici di erbe o profumi. Ma i loro risultati riuscivano sempre poco favorevoli. Anche alcuni esorcisti Ebrei, vedendo che perfino le vesti di Paolo cacciavano i demoni, ne furono presi da invidia e si provarono, come faceva San Paolo, a usare il nome di Gesù Cristo per cacciare il demonio da un uomo. «Io ti scongiuro», andavano dicendo, «e ti comando di uscire da questo corpo per quel Gesù che è predicato da Paolo». Il demonio, che sapeva le cose meglio di loro, per bocca dell’indemoniato rispose: «Io conosco Gesù e so anche chi è Paolo; ma voi siete impostori. Qual diritto avete voi sopra di me?» Ciò detto, si avventò su di loro, li malmenò e li percosse in modo che due di loro a stento poterono fuggire tutti feriti e con gli abiti fatti a pezzi. Questo fatto strepitoso, essendosi divulgato per tutta la città, causò gran timore, e nessuno più osava nominare il santo nome di Gesù Cristo se non con rispetto e venerazione.

CAPO XV. Sacramento della Confessione — Libri perversi bruciati — Lettera ai Corinzi — Sollevazione per la dea Diana — Lettera ai Galati — Anno di Cristo 56-57

            Dio, sempre misericordioso, sa ricavare il bene perfino dai peccati stessi. Il fatto dei due esorcisti così malmenati da quell’indemoniato, mise gran paura in tutti gli Efesini, e tanto gli Ebrei quanto i Gentili si affrettarono a rinunciare al demonio e ad abbracciare la fede. Fu allora che molti di quelli che avevano creduto venivano in gran numero a confessare e a dichiarare il male commesso nella loro vita per ottenere il perdono: Veniebant confitentes et annuntiantes actus suos. Ad. 19 (Venivano confessando e dichiarando i loro atti). È questa una chiara testimonianza della confessione sacramentale comandata dal Salvatore e praticata fin dai tempi apostolici.
            Primo frutto della confessione e del pentimento di quei fedeli fu di allontanare da sé le occasioni del peccato. Perciò tutti quelli che possedevano libri perversi, cioè contrari ai buoni costumi o alla religione, li consegnavano perché fossero bruciati. Tanti ne portarono che, fattone un mucchio sulla piazza, ne fecero un falò alla presenza di tutto il popolo, reputando cosa migliore bruciare quei libri nella vita presente per evitare il fuoco eterno dell’inferno. Il valore di quei libri formava una somma che corrispondeva quasi a centomila franchi. Nessuno però cercò di venderli, perché sarebbe stato un porgere ad altri occasione di far male, cosa che non è mai permessa. Mentre queste cose accadevano, giunse da Corinto a Efeso Apollo con altri, annunciando che erano nate discordie tra quei fedeli. Il santo Apostolo si adoperò a porvi rimedio con una lettera, in cui raccomanda loro l’unità di fede, l’obbedienza ai propri pastori, la carità vicendevole e specialmente verso i poveri; inculca ai ricchi di non imbandire lauti banchetti e abbandonare i poveri nella miseria. Insiste poi che ciascuno purifichi la sua coscienza prima di accostarsi al Corpo e al Sangue di Gesù Cristo, dicendo: «Colui che mangia quel Corpo e beve quel Sangue indegnamente, mangia il proprio giudizio e la propria condanna». Era pure accaduto che un giovane aveva commesso grave peccato con la sua matrigna. Il santo, per farne comprendere il dovuto orrore, comandò che quello fosse per qualche tempo separato dagli altri fedeli affinché tornasse in sé stesso. È questo un vero esempio di scomunica, come appunto pratica ancora la Chiesa Cattolica, quando per gravi delitti scomunica, ossia dichiara separati dagli altri quei cristiani che ne sono colpevoli. Paolo mandò il suo discepolo Tito a portare questa lettera a Corinto. Il frutto pare che ne sia stato molto copioso.
            Egli era a Efeso quando si scatenò contro di lui una terribile persecuzione per opera di un orefice chiamato Demetrio. Costui fabbricava piccoli templi d’argento entro cui si poneva una statuetta della dea Diana, divinità venerata a Efeso e in tutta l’Asia. Ciò gli produceva commercio e gran guadagno, poiché la maggior parte dei forestieri che venivano alle feste di Diana portavano via con sé questi segni di devozione. Demetrio ne era l’artefice principale e con ciò forniva lavoro e sostentamento alle famiglie di molti operai.
            Man mano che cresceva il numero dei cristiani, diminuiva quello dei compratori delle statuette di Diana. Così, un giorno, Demetrio radunò un gran numero di cittadini e dimostrò come, non avendo essi altri mezzi per vivere, Paolo li avrebbe tutti fatti morire di fame. «Almeno», soggiungeva, «non si trattasse che del nostro privato interesse; ma il tempio della nostra gran dea, così celebrato in tutto il mondo, è per essere abbandonato». A queste parole fu interrotto da mille diverse voci che gridavano con la più furiosa confusione: «La grande Diana degli Efesini! La grande Diana degli Efesini!» Tutta la città si mise sottosopra; corsero schiamazzando in cerca di Paolo e, non potendolo trovare subito, trascinarono con sé due suoi compagni di nome Gaio e Aristarco. Un Giudeo di nome Alessandro volle parlare. Ma appena poté aprire bocca, da tutte le parti si misero a gridare con voce ancor più forte: «La grande Diana degli Efesini! Quanto è grande la Diana degli Efesini!» Questo grido fu ripetuto per due ore intere.
            Paolo voleva avanzarsi in mezzo al tumulto per parlare, ma alcuni fratelli, sapendo che si sarebbe esposto a morte certa, glielo impedirono. Dio però, che ha in mano il cuore degli uomini, restituì piena calma tra quel popolo in un modo inaspettato. Un uomo saggio, un semplice segretario e, da quanto appare, amico di Paolo, riuscì a calmare quel furore. Appena poté parlare, disse: «E chi è che non sappia che la città di Efeso ha una devozione e un culto particolare verso la grande Diana, figlia di Giove? Essendo tale cosa da tutti creduta, voi non dovete turbarvi né appigliarvi a così temerario rimedio, quasi possa cadere in dubbio tale devozione da tutti i secoli stabilita. Quanto a Gaio e Aristarco, vi dirò che essi non sono convinti di alcuna bestemmia contro Diana. Se Demetrio e i suoi compagni hanno qualcosa contro di essi, portino la causa dinanzi al tribunale. Se continuiamo in queste pubbliche dimostrazioni, saremo accusati di sedizione». A quelle parole il tumulto si placò e ognuno tornò alle proprie occupazioni.
            Dopo questa sommossa, Paolo voleva subito partire per la Macedonia, ma dovette ancora sospendere la sua partenza a motivo di alcuni disordini avvenuti tra i fedeli della Galazia. Alcuni falsi predicatori si diedero a screditare San Paolo e le sue predicazioni, asserendo che la dottrina di lui era diversa da quella degli altri Apostoli e che la circoncisione e le cerimonie della legge di Mosè erano assolutamente necessarie.
            Il santo Apostolo scrisse una lettera in cui dimostra la conformità di dottrina fra lui e gli Apostoli; prova che molte cose della legge di Mosè non erano più necessarie per salvarsi; raccomanda di guardarsi bene dai falsi predicatori e di gloriarsi solamente in Gesù, nel cui nome augura pace e benedizioni.
            Spedita la lettera ai fedeli della Galazia, egli partì per la Macedonia dopo essere rimasto tre anni a Efeso, cioè dall’anno cinquantaquattro all’anno cinquantasette di Gesù Cristo. Durante il soggiorno di San Paolo a Efeso, Dio gli fece conoscere in spirito che lo chiamava in Macedonia, in Grecia, a Gerusalemme e a Roma.

CAPO XVI. San Paolo ritorna a Filippi — Seconda Lettera ai fedeli di Corinto — Va in questa città — Lettera ai Romani — Sua predica prolungata a Troade — Risuscita un morto — Anno di Cristo 58

            Prima di partire da Efeso, Paolo convocò i discepoli e, fatta loro una paterna esortazione, li abbracciò teneramente; poi si mise in viaggio verso la Macedonia. Desiderava fermarsi qualche tempo a Troade, dove sperava di incontrare il suo discepolo Tito; ma, non avendolo trovato e desiderando sapere presto lo stato della Chiesa di Corinto, partì da Troade, attraversò l’Ellesponto, che oggi si chiama stretto dei Dardanelli, e passò in Macedonia, dove dovette molto patire per la fede.
            Ma Dio gli preparò una grande consolazione con l’arrivo di Tito, che lo raggiunse nella città di Filippi. Quel discepolo espose al santo Apostolo come la sua lettera aveva prodotto salutari effetti tra i cristiani di Corinto, che il nome di Paolo era carissimo a tutti e che ognuno ardeva dal desiderio di rivederlo presto.
            Per dare sfogo ai paterni sentimenti del suo cuore, l’Apostolo scrisse da Filippi una seconda lettera nella quale si dimostra tutto tenerezza verso coloro che si conservavano fedeli e riprende alcuni che cercavano di pervertire la dottrina di Gesù Cristo. Avendo poi inteso che quel giovane, scomunicato nella sua prima lettera, si era sinceramente convertito, anzi, udendo da Tito che il dolore lo aveva quasi spinto alla disperazione, il santo Apostolo raccomandò di usargli riguardo, lo assolse dalla scomunica e lo restituì alla comunione dei fedeli. Con la lettera raccomandò molte cose a viva voce da comunicarsi per mezzo di Tito, che ne era il portatore. Accompagnarono Tito in questo viaggio altri discepoli, tra i quali San Luca, da alcuni anni vescovo di Filippi. San Paolo consacrò San Epafrodito vescovo per quella città e così San Luca divenne nuovamente compagno del santo maestro nelle fatiche dell’apostolato.
            Dalla Macedonia Paolo si recò a Corinto, dove ordinò quanto riguardava la celebrazione dei santi misteri, come aveva promesso nella sua prima lettera, il che si deve intendere di quei riti che in tutte le Chiese comunemente si osservano, come sarebbe il digiuno prima della Santa Comunione ed altre cose simili che riguardano l’amministrazione dei Sacramenti.
            L’Apostolo passò l’inverno in questa città, adoperandosi a consolare i suoi figli in Gesù Cristo, che non si saziavano di ascoltarlo e di ammirare in lui uno zelante pastore ed un tenero padre.
            Da Corinto estese pure le sue sollecitudini ad altri popoli e specialmente ai Romani, già convertiti alla fede da San Pietro con anni di fatiche e di patimenti. Aquila, con altri suoi amici, avendo inteso che era cessata la persecuzione, si era di nuovo recato a Roma. Paolo seppe da loro che in quella metropoli dell’impero erano insorte dissensioni tra Gentili ed Ebrei. I Gentili rimproveravano gli Ebrei perché non avevano corrisposto ai benefici ricevuti da Dio, avendo ingratamente messo in croce il Salvatore; gli Ebrei, dal loro canto, facevano rimproveri ai Gentili perché avevano seguito l’idolatria e venerato le più infami divinità. Il santo Apostolo scrisse la sua famosa Lettera ai Romani, tutta piena di sublimi argomenti, che egli tratta con quell’acutezza d’ingegno propria di un uomo dotto e santo, che scrive ispirato da Dio. Non è possibile abbreviarla senza pericolo di variarne il senso. Essa è la più lunga, la più elegante di tutte le altre e la più piena di erudizione. Ti esorto, o lettore, a leggerla attentamente, ma con le debite interpretazioni che si sogliono unire alla Vulgata. Essa è la sesta lettera di San Paolo e fu scritta dalla città di Corinto nell’anno 58 di Gesù Cristo. Ma, per il grande rispetto che in ogni tempo si ebbe per la dignità della Chiesa di Roma, è annoverata la prima tra le quattordici lettere di questo santo Apostolo. In questa lettera San Paolo non parla di San Pietro, perché egli era occupato nella fondazione di altre Chiese. Essa era portata da una diaconessa, ovvero monaca, di nome Febe, che l’Apostolo raccomanda molto presso i fratelli di Roma.
            Volendo San Paolo partire da Corinto per avviarsi a Gerusalemme, venne a sapere che gli Ebrei studiavano di tendergli insidie lungo il cammino; perciò, invece di imbarcarsi nel porto di Cencrea per Gerusalemme, Paolo tornò indietro e continuò il viaggio per la Macedonia. Lo accompagnarono Sosipatro, figlio di Pirro di Berea, Aristarco e Secondo di Tessalonica, Gaio di Derbe e Timoteo di Listra, Tichico e Trofimo di Asia. Costoro vennero in compagnia di lui fino a Filippi; poi, ad eccezione di Luca, passarono a Troade con ordine di aspettarlo là, mentre egli si sarebbe trattenuto in questa città fino dopo le feste pasquali. Passata tale solennità, Paolo e Luca in cinque giorni di navigazione giunsero a Troade e vi si fermarono sette giorni.
            Accadde che, alla vigilia della partenza di Paolo, era il primo giorno della settimana, cioè giorno di domenica, in cui i fedeli solevano radunarsi per ascoltare la parola di Dio ed assistere ai divini sacrifici. Fra le altre cose facevano lo spezzamento del pane, cioè celebravano la Santa Messa, a cui partecipavano i fedeli, ricevendo il Corpo del Signore sotto la specie del pane. Fin da allora la Messa si giudicava l’atto più sacro e più solenne per la santificazione del giorno festivo.
            Paolo, che era per partire l’indomani, prolungò il discorso a notte avanzata e, per illuminare il cenacolo, erano state accese molte lampade. Il giorno di domenica, l’ora notturna, il cenacolo al terzo piano della casa, le molte lampade accese, attrassero immensa folla di gente. Mentre tutti erano intenti al ragionamento di Paolo, un giovanetto di nome Eutico, o per desiderio di vedere l’Apostolo o per poterlo meglio ascoltare, era salito sopra una finestra e si era seduto sul davanzale. Ora, sia per il caldo che faceva, sia per l’ora tarda o forse per la stanchezza, fatto sta che quel giovinetto si addormentò; e nel sonno, abbandonandosi al peso del proprio corpo, cadde giù sul lastrico della pubblica strada. Si ode un lamento risuonare per l’assemblea; corrono e trovano il giovane senza vita.
            Paolo scende subito in basso, e, postosi con il corpo sopra il cadavere, lo benedice, lo abbraccia e, con il suo soffio o piuttosto con la viva fede in Dio, lo restituisce a nuova vita. Operato questo miracolo, senza badare agli applausi che da tutte le parti si facevano, risalì di nuovo nel cenacolo e continuò a predicare fino al mattino.
            La grande sollecitudine dei fedeli di Troade per assistere alle sacre funzioni deve servire da stimolo a tutti i cristiani a santificare i giorni festivi con opere di pietà, specialmente con l’udire devotamente la Santa Messa e con l’ascoltare la parola di Dio anche con qualche incomodo.

CAPO XVII. Predica di San Paolo a Mileto — Suo viaggio fino a Cesarea — Profezia di Agabo — Anno di Cristo 58

            Terminata quell’adunanza, che era durata circa ventiquattro ore, l’instancabile Apostolo partì con i suoi compagni per Mitilene, nobile città dell’isola di Lesbo. Di qui, proseguendo il viaggio, in pochi giorni giunse a Mileto, città della Caria, provincia dell’Asia Minore. L’Apostolo non aveva voluto fermarsi a Efeso per non essere obbligato da quei cristiani, che teneramente lo amavano, a sospendere troppo il suo cammino. Egli si affrettava con il fine di giungere a Gerusalemme per la festa di Pentecoste. Da Mileto Paolo mandò a Efeso per partecipare il suo arrivo ai vescovi e ai preti di quella città e delle province vicine, invitandoli a venirlo a trovare e anche a conferire con lui intorno alle cose della fede, se mai fosse stato necessario. Vennero in gran numero.
            Quando San Paolo si vide circondato da quei venerandi predicatori del Vangelo, cominciò ad esporre loro le tribolazioni sofferte giorno e notte per le insidie dei Giudei. «Ora io vado a Gerusalemme», diceva, «guidato dallo Spirito Santo, il quale, in tutti i luoghi dove passo, mi fa conoscere le catene e le tribolazioni che in quella città mi aspettano. Ma nulla di ciò mi spaventa, né tengo la mia vita più preziosa del mio dovere. A me poco importa vivere o morire, purché io termini la mia corsa rendendo gloriosa testimonianza al Vangelo che Gesù Cristo mi ha affidato. Voi non vedrete più il mio volto, ma badate a voi stessi e a tutto il gregge, sopra cui lo Spirito Santo vi ha costituiti vescovi per governare la Chiesa di Dio, da lui acquistata col prezioso suo sangue». Quindi passò ad avvisarli che dopo la sua partenza sarebbero insorti lupi rapaci e uomini perversi per guastare la dottrina di Gesù Cristo. Dette queste parole, si posero tutti in ginocchio e fecero insieme orazione. Nessuno poteva trattenere le lacrime, e tutti si gettavano sul collo di Paolo, imprimendogli mille baci. Erano specialmente inconsolabili per quelle parole che non avrebbero più visto il suo volto. Per godere ancora alcuni momenti della sua dolce compagnia, lo accompagnarono fino alla nave e non senza una specie di violenza si separarono dal loro caro maestro.
            Paolo insieme ai suoi compagni, da Mileto passò all’isola di Coo, molto rinomata per un tempio dei Gentili dedicato a Giunone e ad Esculapio. Il giorno dopo giunsero a Rodi, isola molto celebre specialmente per il suo Colosso, che era una statua di straordinaria altezza e grandezza. Di là vennero a Patara, città capitale della Licia, molto rinomata per un gran tempio dedicato al dio Apollo. Di qui navigarono fino a Tiro, dove la nave doveva lasciare il suo carico.
            Tiro è la città principale della Fenicia, ora detta Sur, sulle rive del Mediterraneo. Appena sbarcati, trovarono alcuni profeti che andavano pubblicando i mali che al santo Apostolo sovrastavano a Gerusalemme, e lo volevano distogliere da quel viaggio. Ma egli, dopo sette giorni, volle partire. Quei buoni cristiani, con le mogli e i loro bambini, lo accompagnarono fuori della città, dove, piegate le ginocchia sulla spiaggia, fecero con lui orazione. Quindi, scambiatisi i più cordiali saluti, s’imbarcarono e vennero accompagnati dagli sguardi dei sidoni fino a che la lontananza della nave li tolse di vista. Giunti a Tolemaide si fermarono un giorno per salutare e confortare quei cristiani nella fede; continuando poi il loro cammino, giunsero a Cesarea.
            Ivi Paolo fu accolto con giubilo dal diacono Filippo. Questo santo discepolo, dopo aver predicato ai Samaritani, all’eunuco della regina Candace e in molte città della Palestina, aveva fissato il suo domicilio a Cesarea per attendere alla cura di quelle anime che egli aveva rigenerato in Gesù Cristo.
            Venne in quei tempi a Cesarea il profeta Agabo e, andato a far visita al santo Apostolo, gli tolse da dosso la cintura e, legatosi con essa i piedi e le mani, disse: «Ecco quanto lo Spirito Santo apertamente mi dice: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà in questa guisa legato dai Giudei a Gerusalemme».
            La profezia di Agabo commosse tutti i presenti, poiché venivano sempre più resi manifesti i mali che erano preparati al santo Apostolo a Gerusalemme; perciò gli stessi compagni di Paolo, piangendo, lo pregavano di non andarvi. Ma Paolo coraggiosamente rispondeva: «Deh! Vi prego, non piangete. Con queste vostre lacrime non fate altro che accrescere afflizione al mio cuore. Sappiate che io sono pronto non solo a patire le catene, ma ad affrontare anche la morte per il nome di Gesù Cristo».
            Allora tutti, ravvisando la volontà di Dio nella fermezza del santo Apostolo, dissero ad una voce: «Sia fatta la volontà del Signore». Ciò detto, partirono alla volta di Gerusalemme con un certo Mnasone, che era stato discepolo e seguace di Gesù Cristo. Egli aveva dimora fissa a Gerusalemme e andava con loro per ospitarli in casa sua.

CAPO XVIII. San Paolo si presenta a San Giacomo — Gli Ebrei gli tendono insidie — Parla al popolo — Rimprovera il sommo sacerdote — Anno di Cristo 59

            Ci accingiamo ora a raccontare una lunga serie di patimenti e di persecuzioni che il santo Apostolo tollerò in quattro anni di prigionia. Dio volle preparare il suo servo a questi combattimenti facendoglieli conoscere molto prima; infatti, i mali previsti causano minore spavento, e l’uomo è più disposto a sostenerli. Giunto Paolo con i suoi compagni a Gerusalemme, furono accolti dai cristiani di questa città con i segni della più grande benevolenza. Il giorno dopo andarono a visitare il vescovo della città, che era San Giacomo il Minore, presso cui si erano pure radunati i sacerdoti principali della diocesi. Paolo raccontò le meraviglie che Dio aveva operato per il suo ministero presso i Gentili, di che tutti ringraziarono di cuore il Signore.
            Si premurarono però di avvisare Paolo del pericolo che gli sovrastava. «Molti Ebrei», gli dissero, «si sono convertiti alla fede e parecchi di costoro sono tenacissimi della circoncisione e delle cerimonie legali. Ora, sapendosi che tu dispensi i Gentili da queste osservanze, c’è un astio terribile contro di te. È necessario dunque che tu dimostri di non essere nemico degli Ebrei. Fa in questa maniera: nell’occasione in cui quattro Ebrei devono in questi giorni compiere un voto, tu prenderai parte alla funzione e farai per loro le spese che occorrono per questa solennità».
            Aderì prontamente Paolo al saggio consiglio e prese parte a quell’opera di pietà. Si recò nel tempio e la funzione era sul finire, quando alcuni Giudei venuti dall’Asia eccitarono il popolo contro di lui gridando: «Aiuto, Israeliti, aiuto! Quest’uomo è colui che va per tutto il mondo predicando contro il popolo, contro la legge e contro questo medesimo tempio. Egli non ha dubitato di violarne la santità introducendovi dentro dei Gentili».
            Sebbene tali accuse fossero calunnie, tuttavia si mise a rumore tutta la città e, fattosi un gran concorso di popolo, presero San Paolo, lo trascinarono fuori del tempio per metterlo a morte come bestemmiatore. Ma il rumore del tumulto essendo giunto al tribuno romano, questi accorse subito con le guardie. I sediziosi, vedendo le guardie, cessarono di percuotere Paolo e lo consegnarono al tribuno, che, fattolo legare, ordinò che fosse condotto nella torre Antonia, che era una fortezza ed un quartiere di soldati vicino al tempio. Lisia, tale era il nome del tribuno, desiderava sapere il motivo di quel tumulto ma nulla poté sapere, perché le grida e gli schiamazzi del popolo soffocavano ogni voce. Mentre Paolo saliva i gradini della fortezza, fu necessario che i soldati lo portassero sulle braccia per toglierlo dalle mani dei Giudei, i quali, non potendolo avere in loro potere, andavano schiamazzando: «Uccidilo, toglilo dal mondo».
            Quando stava per entrare nella torre, parlò così in greco al tribuno: «Mi è permesso dirti una parola?» Il tribuno si meravigliò che egli parlasse greco e gli disse: «Sai tu il greco? Non sei tu quell’Egiziano che poco fa eccitasti una ribellione e conducesti con te nel deserto quattromila assassini?» «No certamente», rispose Paolo, «io sono Giudeo, cittadino di Tarso, città della Cilicia. Ma, di grazia, mi permetti parlare al popolo?» La qual cosa essendogli stata concessa, Paolo, dai gradini della torre, alzò alquanto la mano aggravata dal peso delle catene, diede segno al popolo di tacere e si mise ad esporre quello che riguardava la sua patria, la sua conversione e la sua predicazione, e come Dio lo aveva destinato a portare la fede tra i Gentili.
            Il popolo lo aveva ascoltato con profondo silenzio fino a queste ultime parole; ma quando intese parlare dei Gentili, come agitato da mille furie, proruppe in grida forsennate, e chi per sdegno gettava a terra le proprie vesti, chi spargeva in aria la polvere, e tutti gridavano: «Costui è indegno di vivere, sia tolto dal mondo!»
            Il tribuno, che nulla aveva capito del discorso di San Paolo, perché aveva parlato in lingua ebraica, temendo che il popolo venisse a gravi eccessi, comandò ai suoi di condurre Paolo nella fortezza, di poi flagellarlo e metterlo alla tortura per costringerlo così a svelare la causa della sedizione. Ma Paolo, che sapeva non essere ancora venuta l’ora in cui dovesse patire simili mali per Gesù Cristo, si volse al centurione incaricato di far eseguire quell’ordine ingiusto e gli disse: «Ti pare che sia lecito flagellare un cittadino romano, senza che sia condannato?» Udendo ciò, il centurione corse dal tribuno dicendogli: «Che cosa sei per fare? Non sai che quest’uomo è cittadino romano?»
            Il tribuno ebbe paura, perché aveva fatto legare Paolo, la qual cosa portava pena di morte. Si recò egli stesso da Paolo e gli disse: «Sei tu veramente cittadino romano?» Egli rispose: «Lo sono veramente». «Io», soggiunse il tribuno, «ho acquistato a caro prezzo tale diritto di cittadinanza romana». «Ed io», replicò Paolo, «ne godo per la mia nascita». Saputo ciò, fece sospendere l’ordine di mettere Paolo alla tortura, ed il tribuno stesso ne fu in apprensione, e studiò un altro mezzo per sapere le accuse che i Giudei facevano contro di lui. Ordinò che il giorno seguente si radunassero il Sinedrio e tutti i sacerdoti Ebrei; poi, fatte togliere le catene a Paolo, lo fece venire in mezzo al concilio.
            L’Apostolo, fissati gli occhi su quell’assemblea, disse: «Io, fratelli, fino a questo giorno ho camminato davanti a Dio con buona coscienza». Appena udite queste parole, il sommo sacerdote, di nome Anania, comandò a uno degli astanti di dare a Paolo una forte percossa. L’Apostolo non giudicò di tollerare sì grave ingiuria e, con la libertà e lo zelo che usavano gli antichi profeti, disse: «Muraglia imbiancata, Dio percuoterà te, così come tu hai fatto percuotere me, perché, fingendo di giudicare secondo la legge, mi fai percuotere contro la legge stessa». Udite queste parole, tutti si risentirono: «Olà», gli dissero, «hai tu l’ardire di insultare il sommo sacerdote?» «Perdonatemi, fratelli», rispose Paolo, «io non sapevo che questi fosse il principe dei sacerdoti, poiché ben conosco la legge che proibisce di maledire il principe del popolo».
            Paolo non aveva riconosciuto il sommo sacerdote o perché egli non aveva le insegne del suo grado, o non parlava e non agiva con la dignità che a tale persona si conveniva. Né San Paolo malediceva Anania, ma prediceva i mali che sarebbero piombati su di lui, come di fatto avvenne. Per cavarsi in qualche maniera dalle mani dei suoi nemici, Paolo unì la semplicità della colomba alla prudenza del serpente e, sapendo che l’assemblea era composta di Sadducei e di Farisei, pensò di mettere divisione tra di loro esclamando: «Io, fratelli, sono Fariseo, figlio ed allievo di Farisei. Il motivo per cui sono chiamato in giudizio è la mia speranza nella resurrezione dei morti». Queste parole fecero nascere gravi dissensioni tra gli uditori; chi era contro Paolo, chi a favore di lui.
            Intanto si alzò un clamore che faceva temere gravi disordini. Il tribuno, temendo che i più arrabbiati si avventassero contro Paolo e lo facessero a pezzi, ordinò ai soldati che lo togliessero dalle loro mani e lo riconducessero nella torre. Dio però volle consolare il suo servo per quanto aveva patito in quella giornata. Nella notte gli apparve e gli disse: «Fatti animo: dopo avermi reso testimonianza a Gerusalemme, tu farai altrettanto a Roma».

CAPO XIX. Quaranta Giudei si obbligano con voto di uccidere San Paolo — Un suo nipote scopre la trama — È trasferito a Cesarea — Anno di Cristo 59

            I Giudei, vedendo fallito il loro disegno, passarono la notte seguente elaborando vari progetti. Quaranta di loro presero la disperata risoluzione di obbligarsi con voto a non mangiare né bere prima di aver ucciso Paolo. Ordita questa congiura, si recarono dai principi dei sacerdoti e dagli anziani, raccontando loro il proposito. «Per avere quel ribaldo nelle mani», soggiunsero, «abbiamo trovato una via sicura; resta solo che voi ci diate una mano. Fate sapere al tribuno, in nome del Sinedrio, che desiderate ulteriormente esaminare alcuni punti della causa di Paolo e che quindi ve lo presenti nuovamente domani. Egli certamente acconsentirà alla richiesta. Ma state certi che, prima che Paolo sia condotto dinanzi a voi, noi lo faremo a pezzi con queste mani». Gli anziani lodarono il progetto e promisero di collaborare.
            O perché qualcuno dei congiurati non mantenne il segreto, o perché non badarono a chiudere la porta quando ordirono il loro piano, certo è che furono scoperti. Un figlio della sorella di Paolo seppe ogni cosa e, corso alla torre, riuscì a passare in mezzo alle guardie, presentarsi allo zio e raccontargli l’intera trama. Paolo istruì bene il nipote sulla maniera di agire. Chiamato poi un ufficiale che gli stava di guardia, gli disse: «Ti prego di condurre questo giovanetto dal capitano; ha qualcosa da comunicargli».
            Il centurione lo condusse dal capitano e gli disse: «Quel Paolo che è in prigione mi ha pregato di condurti questo giovanetto, perché ha qualcosa da dirti». Il capitano prese per mano il giovanetto e, portatolo in disparte, gli chiese cosa avesse da riferire. «I Giudei», rispose, «si sono accordati per chiederti domani di far condurre Paolo nel Sinedrio, sotto pretesto di voler esaminare più a fondo la sua causa. Ma tu non dar loro retta: sappi che gli tendono un agguato e quaranta di loro si sono obbligati con un voto terribile a non mangiare né bere finché non l’abbiano ucciso. Ora sono pronti ad agire, aspettando solo il tuo consenso». «Bravo», disse il capitano, «hai fatto bene a dirmi queste cose. Ora vai pure, ma non dire a nessuno che me le hai rivelate».
            Da questa disperata risoluzione, Lisia comprese che trattenere più a lungo Paolo a Gerusalemme equivaleva a lasciarlo in pericolo, da cui forse non avrebbe potuto salvarlo. Perciò, senza indugio, chiamò due centurioni e disse loro: «Mettete all’ordine duecento soldati di fanteria e altrettanti armati di lancia, con settanta uomini a cavallo, ed accompagnino Paolo fino a Cesarea. Preparate anche una cavalcatura per lui affinché sia condotto là sano e salvo e si presenti al governatore Felice». Il tribuno accompagnò Paolo con una lettera al governatore, che diceva:
            «Claudio Lisia all’eccellentissimo governatore Felice, salute. Ti mando quest’uomo che, preso dai Giudei, era sul punto di essere da loro ucciso. Sopraggiunto con i miei soldati, lo tolsi dalle loro mani, avendo saputo che è cittadino romano. Volendo poi informarmi di quale delitto fosse accusato, lo condussi nel Sinedrio e trovai che era accusato per questioni riguardanti la loro legge, ma senza alcuna colpa che meritasse morte o prigione. Ma essendomi stato riferito che gli è tesa una trama di morte, ho deciso di mandarlo a te, invitando nel contempo i suoi accusatori a presentarsi davanti al tuo tribunale per esporre le loro accuse contro di lui. Stammi bene».
            In esecuzione degli ordini ricevuti, quella stessa notte i soldati partirono con Paolo e lo condussero ad Antipatride, città posta a metà strada tra Gerusalemme e Cesarea. A quel punto del percorso, non temendo più di essere assaliti dai Giudei, rimandarono i quattrocento soldati a Gerusalemme, e Paolo, accompagnato dai soli settanta cavalieri, giunse il giorno seguente a Cesarea.
            Così Dio, nel modo più semplice, liberava il suo Apostolo da un grave pericolo e faceva conoscere che i progetti degli uomini tornano sempre vani quando sono contrari al volere divino.

CAPO XX. Paolo davanti al governatore — I suoi accusatori e la sua difesa — Anno di Cristo 59

            Il giorno seguente Paolo giunse a Cesarea e fu presentato al governatore con la lettera del capitano Lisia. Letta la lettera, il governatore chiamò Paolo in disparte e, saputo che era di Tarso, gli disse: «Ti ascolterò quando saranno giunti i tuoi accusatori». Intanto lo fece custodire nella prigione del suo palazzo.
            I quaranta congiurati, quando si videro fallire il colpo, rimasero sbalorditi. Si può credere che, senza badare al voto fatto, si siano posti a mangiare e bere per continuare la loro trama. D’accordo con il sommo sacerdote, con gli anziani e con un certo Tertullo, famoso oratore, partirono alla volta di Cesarea, dove giunsero cinque giorni dopo l’arrivo di Paolo. Venuti tutti alla presenza del governatore, Tertullo prese a parlare così contro Paolo: «Abbiamo trovato quest’uomo pestilenziale, che suscita rivolte tra tutti i Giudei del mondo. Egli è capo della setta dei Nazarei. Ha tentato anche di profanare il nostro tempio, e noi lo abbiamo arrestato. Volevamo giudicarlo secondo la nostra legge, ma intervenne il capitano Lisia, che ce lo tolse con la forza. Egli ha ordinato che i suoi accusatori si presentino davanti a te. Ora siamo qui. Esaminandolo, potrai tu stesso accertare le colpe di cui lo accusiamo». Quanto aveva asserito Tertullo fu confermato dai Giudei presenti.
            Paolo, avuta dal governatore la possibilità di rispondere, prese a difendersi così: «Poiché, eccellentissimo Felice, da molti anni governi questo paese, sei certamente in grado di conoscere le cose qui avvenute. Di buon grado mi difendo davanti a te. Come puoi accertare, non sono più di dodici giorni che sono salito a Gerusalemme per adorare. In questo breve tempo, nessuno può dire di avermi trovato nel tempio o nelle sinagoghe o in altro luogo pubblico o privato a discutere con qualcuno, né a radunare folle o fomentare disordini. Non possono provare alcuna delle accuse che mi muovono. Ma ti confesso che seguo la Via che essi chiamano setta, servendo così il Dio dei nostri padri, credendo in tutto ciò che è conforme alla Legge e sta scritto nei Profeti. Ho in Dio la stessa speranza che nutrono anch’essi, che ci sarà una risurrezione dei giusti e degli ingiusti. Per questo anch’io mi sforzo di avere sempre una coscienza irreprensibile davanti a Dio e agli uomini. Dopo molti anni sono venuto a portare elemosine alla mia nazione e a presentare offerte. Mentre ero impegnato in questi riti di purificazione, senza folla né tumulto, alcuni Giudei dell’Asia mi hanno trovato nel tempio. Essi avrebbero dovuto comparire davanti a te per accusarmi, se avessero qualcosa contro di me. Oppure dicano questi stessi se hanno trovato qualche colpa in me, quando sono comparso davanti al Sinedrio, a parte questa sola dichiarazione che feci ad alta voce in mezzo a loro: “È a motivo della risurrezione dei morti che io sono giudicato oggi davanti a voi”».
            I suoi accusatori rimasero confusi e, guardandosi l’un l’altro, non trovavano parole da proferire. Lo stesso governatore, già incline a favore dei cristiani, sapeva che essi, ben lungi dall’essere sediziosi, erano i più docili e fedeli tra i suoi sudditi. Ma non volle pronunciare sentenza e si riservò di udirlo nuovamente quando il capitano Lisia fosse venuto da Gerusalemme a Cesarea. Frattanto ordinò che Paolo fosse custodito, ma concedendogli una certa libertà e permettendo ai suoi amici di servirlo.
            Qualche tempo dopo, il governatore, forse per accontentare sua moglie, che era Giudea, fece venire Paolo alla sua presenza per udirlo parlare di religione. L’Apostolo espose con vividezza le verità della fede, il rigore dei giudizi che Dio riserverà agli empi nell’altra vita, tanto che Felice, spaventato e turbato, disse: «Per ora basta; ti ascolterò di nuovo quando ne avrò l’occasione». In realtà, lo fece chiamare più volte, ma non per istruirsi nella fede, bensì sperando che Paolo gli offrisse del denaro in cambio della libertà. Perciò, sebbene conoscesse l’innocenza di Paolo, lo tenne in prigione a Cesarea per due anni. Così fanno quei cristiani che, per guadagno temporale o per piacere agli uomini, vendono la giustizia e violano i più sacri doveri della coscienza e della religione.

CAPO XXI. Paolo davanti a Festo — Sue parole al re Agrippa — Anno di Cristo 60

            Erano ormai due anni che il santo Apostolo era tenuto prigioniero, quando a Felice succedette un altro governatore di nome Festo. Tre giorni dopo aver assunto la carica, il nuovo governatore andò a Gerusalemme e subito i capi dei sacerdoti e i principali Giudei si presentarono a lui per rinnovare le accuse contro il santo Apostolo. Gli chiesero come favore particolare di far condurre Paolo a Gerusalemme, per essere giudicato nel Sinedrio; ma in realtà avevano l’intenzione di assassinarlo lungo la strada. Festo, forse già avvisato di non fidarsi di loro, rispose che presto sarebbe tornato a Cesarea; «Quelli tra di voi», disse, «che hanno qualcosa contro Paolo, vengano con me e ascolterò le loro accuse».
            Dopo alcuni giorni Festo tornò a Cesarea e con lui i Giudei accusatori di Paolo. Il giorno seguente fece venire il santo Apostolo davanti al suo tribunale, e i Giudei gli mossero molte gravi accuse, senza però poterle provare. Paolo rispose loro con poche parole, e i suoi accusatori tacquero. Tuttavia, Festo, desiderando acquistare la benevolenza degli Ebrei, gli chiese se volesse andare a Gerusalemme per essere giudicato nel Sinedrio, in sua presenza. Accortosi Paolo che Festo inclinava a rimetterlo nelle mani dei Giudei, rispose: «Io sto davanti al tribunale di Cesare, dove devo essere giudicato. Non ho fatto alcun torto ai Giudei, come tu ben sai. Se dunque sono colpevole e ho commesso qualcosa che merita la morte, non rifiuto di morire; ma se non vi è nulla di vero nelle accuse che questi muovono contro di me, nessuno ha il diritto di consegnarmi a loro. Mi appello a Cesare». Questo appello del nostro Apostolo era giusto e conforme alle leggi romane, poiché il governatore si dimostrava disposto a consegnare un cittadino romano, riconosciuto innocente, in potere dei Giudei che volevano la sua morte a ogni costo. I santi Padri riflettono che non il desiderio della vita, ma il bene della Chiesa lo spinse ad appellarsi a Roma, dove per divina rivelazione sapeva quanto doveva lavorare per la gloria di Dio e la salvezza delle anime.
            Festo, dopo aver consultato il suo consiglio, rispose: «Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai».
            Non molti giorni dopo venne a Cesarea il re Agrippa, figlio di quell’Agrippa che aveva fatto morire San Giacomo il Maggiore e imprigionare San Pietro. Era venuto con sua sorella Berenice per fare i dovuti omaggi al nuovo governatore della Giudea. Essendosi trattenuti vari giorni, Festo parlò loro del processo di Paolo. Agrippa manifestò il desiderio di udirlo. Per accontentarlo, Festo fece allestire una sala con grande pompa e, invitando all’udienza i tribuni e gli altri magistrati, fece condurre Paolo alla presenza di Agrippa e Berenice. «Ecco», disse Festo, «quell’uomo contro cui è ricorsa a me tutta la moltitudine dei Giudei, protestando con grandi clamori che non doveva più vivere. Io però non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Tuttavia, essendosi egli appellato al tribunale dell’imperatore, devo mandarlo a Roma. Ma poiché non ho nulla di certo da scrivere al nostro sovrano, ho ritenuto opportuno presentarlo davanti a voi e specialmente a te, o re Agrippa, affinché, dopo averlo interrogato, mi diciate cosa devo scrivere, non sembrandomi conveniente mandare un prigioniero senza specificare le accuse contro di lui».
            Agrippa, rivolgendosi a Paolo, disse: «Ti è permesso parlare in tua difesa». Paolo cominciò a parlare così: «Mi ritengo fortunato, o re Agrippa, di potermi oggi difendere davanti a te contro tutte le accuse dei Giudei, soprattutto perché sei esperto di tutte le usanze e le questioni che li riguardano. Ti prego dunque di ascoltarmi con pazienza. Tutti i Giudei conoscono la mia vita fin dalla giovinezza, trascorsa tra il mio popolo e a Gerusalemme. Sanno che ho vissuto secondo la setta più rigida della nostra religione, quella dei Farisei. E ora sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri, quella che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta servendo Dio notte e giorno. È per questa speranza, o re, che sono accusato dai Giudei. Perché è considerato inconcepibile tra di voi che Dio risusciti i morti?
            Anch’io ritenevo mio dovere fare molte cose contro il nome di Gesù Nazareno. Così feci a Gerusalemme: ottenni dai capi dei sacerdoti l’autorizzazione di imprigionare molti santi e, quando erano messi a morte, esprimevo il mio voto. Spesso, andando di sinagoga in sinagoga, cercavo di costringerli a bestemmiare; e nel mio furore accanito li perseguitavo fin nelle città straniere.
            In tali circostanze, mentre andavo a Damasco con l’autorizzazione e il mandato dei capi dei sacerdoti, a mezzogiorno, o re, vidi sulla strada una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e quelli che erano con me. Tutti caddero a terra e io udii una voce che mi diceva in lingua ebraica: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? È duro per te recalcitrare contro il pungolo”. Io dissi: “Chi sei, Signore?” E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti. Ma alzati e sta’ in piedi; perché ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di ciò che hai visto di me e di ciò che ti mostrerò. Ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando per aprire loro gli occhi, affinché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, e ottengano, mediante la fede in me, la remissione dei peccati e la sorte tra i santificati”.
            Perciò, o re Agrippa, non ho disobbedito alla visione celeste; ma prima a quelli di Damasco, poi a Gerusalemme e in tutta la Giudea, e infine ai pagani, ho annunziato di ravvedersi e convertirsi a Dio, facendo opere degne di pentimento. Per questo i Giudei, avendomi catturato nel tempio, tentarono di uccidermi. Ma, grazie all’aiuto di Dio, fino a questo giorno sto qui a testimoniare davanti ai piccoli e ai grandi, non dicendo altro se non ciò che i profeti e Mosè dichiararono che doveva avvenire: che il Cristo avrebbe sofferto e, come primo tra i risorti dai morti, avrebbe annunciato la luce al popolo e ai pagani».
            Festo interruppe il discorso dell’Apostolo e ad alta voce esclamò: «Tu sei pazzo, Paolo; la troppa scienza ti ha dato alla testa». Al che Paolo rispose: «Non sono pazzo, eccellentissimo Festo, ma sto dicendo parole di verità e di buon senso. Il re, al quale parlo con franchezza, conosce queste cose; credo infatti che nulla di ciò gli sia ignoto, poiché non sono fatti accaduti in segreto. Credi tu ai profeti, o re Agrippa? So che ci credi». Agrippa disse a Paolo: «Ancora un po’ e mi convinci a farmi cristiano». E Paolo replicò: «Che piaccia a Dio che, sia in poco tempo sia in molto, non solo tu, ma anche tutti coloro che oggi mi ascoltano diventino tali quale sono io, eccetto queste catene».
            Allora il re, il governatore, Berenice e gli altri si alzarono e, ritiratisi in disparte, si dissero l’un l’altro: «Quest’uomo non ha fatto nulla che meriti morte o prigione». E Agrippa disse a Festo: «Quest’uomo poteva essere liberato, se non si fosse appellato a Cesare».
            Così il discorso di Paolo, che avrebbe dovuto convertire tutti quei giudici, non servì a nulla, perché essi chiusero il cuore alle grazie che Dio voleva loro concedere. È questa un’immagine di quei cristiani che ascoltano la parola di Dio, ma non si risolvono a mettere in pratica le buone ispirazioni che talora sentono nascere nel cuore.

CAPO XXII. San Paolo è imbarcato per Roma — Soffre una terribile tempesta, da cui è salvato con i suoi compagni — Anno di Gesù Cristo 60

            Quando Festo decise che Paolo sarebbe stato condotto a Roma per mare, egli, insieme con molti altri prigionieri, fu affidato a un centurione di nome Giulio. Con lui c’erano i suoi due fedeli discepoli Aristarco e Luca. Si imbarcarono su una nave proveniente da Adramitto, città marittima dell’Africa. Costeggiando la Palestina, giunsero a Sidone il giorno seguente. Il centurione, che li accompagnava, si accorse presto che Paolo non era un uomo comune e, ammirandone le virtù, iniziò a trattarlo con riguardo. Sbarcati a Sidone, gli diede piena libertà di visitare gli amici, trattenersi con essi e ricevere qualche ristoro.
            Da Sidone navigarono lungo le coste dell’isola di Cipro e, poiché il vento era alquanto contrario, attraversarono il mare della Cilicia e della Panfilia, che è una parte del Mediterraneo, e giunsero a Mira, città della Licia. Qui il centurione, avendo trovato una nave che da Alessandria andava in Italia con carico di frumento, trasferì su di essa i suoi passeggeri. Ma navigando assai lentamente, faticarono molto per giungere fino all’isola di Creta, oggi chiamata Candia. Si fermarono in un luogo detto Buoni Porti, vicino a Salmone, città di quell’isola.
            Essendo la stagione molto avanzata, Paolo, certamente ispirato da Dio, esortava i marinai a non arrischiarsi a continuare la navigazione in un tempo così pericoloso. Ma il pilota e il padrone della nave, non dando peso alle parole di Paolo, affermavano che non vi era nulla da temere. Partirono dunque con l’intento di raggiungere un altro porto di quell’isola detto Fenice, sperando di poter lì passare con maggior sicurezza l’inverno. Ma dopo un breve tratto, la nave fu scossa da un forte vento, al quale non potendo resistere, i naviganti si videro costretti ad abbandonare sé stessi e la nave alla mercé delle onde. Giunti a Cauda, un’isoletta poco distante da Creta, si accorsero di essere vicini a un banco di sabbia e, temendo di rompere la nave contro di esso, si sforzarono di prendere un’altra direzione. Ma infuriando sempre più la tempesta e agitandosi sempre più la nave, si trovarono tutti in gran pericolo. Gettarono in mare le merci, poi gli arredi e gli armamenti della nave per alleggerirla. Tuttavia, dopo parecchi giorni, non apparendo più né sole né stelle e con la tempesta che infuriava maggiormente, pareva perduta ogni speranza di salvezza. A questi mali si aggiungeva che, o per la nausea del mare in tempesta, o per la paura della morte, nessuno pensava a mangiare, il che era dannoso poiché ai marinai mancavano le forze per governare la nave. Si pentirono allora di non aver seguito il consiglio di Paolo, ma era tardi.
            Paolo, vedendo lo scoraggiamento tra i marinai e i passeggeri, animato dalla fiducia in Dio, li confortò dicendo: «Fratelli, avreste dovuto credere a me e non partire da Creta; così avremmo evitato queste perdite e queste disgrazie. Tuttavia, fatevi coraggio; credetemi, a nome di Dio vi assicuro che nessuno di noi si perderà; solo la nave andrà in pezzi. Questa notte mi è apparso l’angelo del Signore e mi ha detto: “Non temere, Paolo, tu devi comparire davanti a Cesare; ed ecco, Dio ti concede la vita di tutti coloro che navigano con te”. Perciò, fatevi coraggio, fratelli, tutto avverrà come mi è stato detto».
            Intanto erano già trascorsi quattordici giorni da quando soffrivano quella tempesta, e ognuno pensava di essere inghiottito dalle onde da un momento all’altro. Era mezzanotte quando, nel buio delle tenebre, parve ai marinai di avvicinarsi a terra. Per accertarsene gettarono lo scandaglio e trovarono l’acqua profonda venti braccia, poi quindici. Temendo allora di finire contro qualche scoglio, gettarono quattro ancore per fermare la nave, aspettando la luce del giorno che facesse loro vedere dove si trovavano.
            In quel momento ai marinai venne l’idea di fuggire dalla nave e tentare di salvarsi su quella terra che pareva vicina. Paolo, sempre guidato dalla luce divina, si rivolse al centurione e ai soldati dicendo: «Se costoro non rimangono a bordo, voi non potrete essere salvi, perché Dio non vuole essere tentato a fare miracoli». A queste parole tutti tacquero e seguirono il consiglio di Paolo. All’alba, il santo Apostolo diede un’occhiata a quelli che erano sulla nave e, vedendoli tutti spossati dalle fatiche e sfiniti dal digiuno, disse loro: «Fratelli, è il quattordicesimo giorno che, aspettando un miglioramento, non avete mangiato nulla. Ora vi prego di non lasciarvi morire di inedia. Vi ho già assicurato, e vi assicuro ancora, che neppure uno dei vostri capelli perirà. Coraggio dunque». Detto ciò, Paolo prese del pane, rese grazie a Dio, lo spezzò e, alla presenza di tutti, si mise a mangiare. Allora tutti si ripresero e mangiarono insieme a lui; erano in numero di 276 persone.
            Ma, continuando la furia dei venti e delle onde, furono costretti a gettare in mare anche il frumento che avevano serbato per loro uso. Fattosi giorno, parve loro di vedere un’insenatura e si adoperarono per spingere la nave là e cercare salvezza. Ma, sospinta dalla forza dei venti, la nave andò a incagliarsi su una secca, cominciando a rompersi e sfasciarsi. Vedendo l’acqua penetrare da varie fessure, i soldati volevano prendere il crudele partito di uccidere tutti i prigionieri, sia per alleggerire la nave sia perché non fuggissero dopo essersi salvati a nuoto.
            Ma il centurione, che amava Paolo e voleva salvarlo, non approvò tale consiglio, anzi ordinò che quelli che sapevano nuotare si gettassero in mare per raggiungere la terra; agli altri fu detto di aggrapparsi a tavole o a rottami della nave; e così giunsero tutti sani e salvi al lido.

CAPO XXIII. San Paolo nell’isola di Malta — È liberato dal morso di una vipera — È accolto in casa di Publio, di cui guarisce il padre — Anno di Cristo 60

            Né Paolo né i suoi compagni conoscevano la terra su cui erano approdati dopo essere usciti dalle onde. Informatisi dai primi abitanti che incontrarono, seppero che quel luogo si chiamava Melita, oggi Malta, un’isola del Mediterraneo situata tra l’Africa e la Sicilia. Alla notizia di quel gran numero di naufraghi che erano usciti dalle onde come tanti pesci, gli isolani accorsero e, sebbene fossero barbari, si intenerirono nel vederli così stanchi, sfiniti e tremanti per il freddo. Per riscaldarli accesero un grande fuoco.
            Paolo, sempre attento a esercitare opere di carità, andò a raccogliere un fascio di rami secchi. Mentre li metteva sul fuoco, una vipera che era tra essi, intorpidita dal freddo, risvegliata dal calore, saltò fuori e si attaccò alla mano di Paolo. Quei barbari, vedendo il serpente appeso alla sua mano, pensarono male di lui e dicevano l’un l’altro: «Quest’uomo dev’essere un assassino o qualche grande scellerato; è scampato dal mare, ma la vendetta divina lo colpisce sulla terra». Ma quanto dobbiamo guardarci dal giudicare temerariamente il nostro prossimo!
            Paolo, ravvivando la fede in Gesù Cristo, che aveva assicurato ai suoi Apostoli che né serpenti né veleni avrebbero recato loro danno, scosse la mano, gettò la vipera nel fuoco e non subì alcun male. Quella buona gente aspettava che, entrato il veleno nel sangue di Paolo, egli dovesse gonfiarsi e cadere morto dopo pochi istanti, come accadeva a chiunque avesse la sventura di essere morso da quei animali. Aspettarono a lungo e, vedendo che nulla gli accadeva, cambiarono giudizio e dicevano che Paolo era un grande dio disceso dal cielo. Forse credevano che fosse Ercole, ritenuto dio e protettore di Malta. Secondo le leggende, Ercole, essendo ancora bambino, avrebbe ucciso un serpente, perciò detto ofiotoco, cioè uccisore di serpenti.
            Dio confermò questo primo prodigio con un altro ancora più strepitoso e permanente: infatti, fu tolta ogni forza velenosa ai serpenti di quell’isola, sicché da quell’epoca in poi non si ebbe più a temere il morso delle vipere. Che più? Si vuole che la terra stessa dell’isola di Malta, portata altrove, sia rimedio sicuro contro i morsi delle vipere e dei serpenti.
            Il governatore dell’isola, un principe di nome Publio, uomo molto ricco, come seppe del modo miracoloso con cui quei naufraghi erano stati salvati dalle acque e informato, o essendo stato testimone, del miracolo della vipera, mandò a invitare Paolo e i suoi compagni, che erano giunti in numero di 276. Li accolse in casa sua e li onorò per tre giorni, offrendo loro alloggio e vitto a sue spese. Dio non lasciò senza ricompensa la liberalità e cortesia di Publio. Egli aveva suo padre a letto, afflitto da febbre e da grave dissenteria che lo avevano condotto in punto di morte. Paolo andò a vedere l’ammalato e, dopo avergli rivolto parole di carità e di consolazione, si mise a pregare. Alzatasi poi, si avvicinò al letto, impose le mani sull’infermo che immediatamente guarì. Così il buon vecchio, libero da ogni male e pienamente ristabilito, corse ad abbracciare suo figlio, benedicendo Paolo e il Dio che egli predicava. Publio, suo padre e la sua famiglia (così assicura San Giovanni Crisostomo), pieni di gratitudine verso il grande Apostolo, si fecero istruire nella fede e ricevettero per mano di Paolo il battesimo.
            Sparsa la notizia della guarigione miracolosa del padre di Publio, tutti coloro che erano ammalati o avevano infermi di qualsiasi malattia andavano o si facevano portare ai piedi di Paolo, ed egli, benedicendoli in nome di Gesù Cristo, li rimandava tutti guariti, benedicendo Dio e credendo al Vangelo. In breve tempo tutta quell’isola ricevette il battesimo e, abbattuti i templi degli idoli, ne innalzarono altri consacrati al culto del vero Dio.

CAPO XXIV. Viaggio di San Paolo da Malta a Siracusa — Predica a Reggio — Suo arrivo a Roma — Anno di Cristo 60

            I Maltesi erano pieni di entusiasmo per Paolo e per la dottrina da lui predicata, tanto che, oltre ad abbracciare in massa la fede, gareggiavano nel somministrare a lui e ai suoi compagni quanto occorreva per il tempo che dimorarono a Malta e per il viaggio fino a Roma. Paolo rimase a Malta tre mesi, a motivo dell’inverno in cui il mare non è navigabile. Si crede comunemente che in quello spazio di tempo egli abbia guidato Publio nella perfezione cristiana e che, prima di partire, lo abbia ordinato vescovo di quell’isola; il che certamente fu di grande consolazione per quei fedeli.
            Venuta la primavera e decisa la partenza per Roma, il centurione Giulio si accordò con una nave che da Alessandria andava verso l’Italia e che per insegna aveva due dèi chiamati Castore e Polluce, che gli idolatri credevano protettori della navigazione. Con grande rincrescimento dei Maltesi, s’imbarcarono verso la Sicilia, un’isola molto vicina all’Italia, e favoriti dal vento giunsero in breve a Siracusa, città principale di quest’isola. Qui il Vangelo era già stato predicato da San Pietro, il quale vi aveva ordinato vescovo San Marciano. Questo degno pastore volle ospitare in casa sua il santo Apostolo e gli fece celebrare i santi misteri in una grotta, con grande gioia sua e di quei fedeli. Un’antichissima chiesa, che sussiste ancora oggi in quella città, è dedicata al nostro santo Apostolo, e si crede che sia stata edificata sopra la grotta stessa dove San Paolo aveva predicato la parola di Dio e celebrato i divini misteri.
            Partendo da Siracusa, costeggiarono l’isola della Sicilia, passarono il porto di Messina e giunsero con i suoi compagni a Reggio, città e porto della Calabria, vicinissimo alla Sicilia. Qui si fermarono un giorno.
            Accreditati storici di quel paese raccontano molte cose meravigliose operate da San Paolo in quella breve sosta; tra queste scegliamo il seguente fatto. I Reggini, che erano idolatri, avendo udito che nel loro porto era approdata una nave con l’insegna di Castore e Polluce, da loro molto onorati, accorsero in massa a vederla. Paolo volle approfittare di quel concorso per predicare Gesù Cristo, ma essi non volevano ascoltarlo. Allora egli, mosso dalla fede in quel Gesù che per sua mano aveva operato tante meraviglie, trasse fuori un mozzicone di candela e disse: «Vi prego di lasciarmi parlare almeno per il tempo che questo pezzetto di candela impiegherà a consumarsi». Accettarono la condizione con risate e si acquietarono.
            Paolo pose quel cerino sopra una colonna di pietra posta sul lido. Immediatamente tutta la colonna prese fuoco e apparve una grande fiamma, che gli servì da torcia ardente. Ebbe tempo abbondante per ammaestrarli, poiché quei barbari, sbalorditi da tale miracolo, stettero ad ascoltare Paolo mansuetamente quanto egli volle parlare; e nessuno osò disturbarlo. La fede fu accolta, e sul luogo del miracolo fu eretta una magnifica chiesa al vero Dio. Sull’altare maggiore fu collocata quella colonna e, per conservare la memoria di quel prodigio, fu stabilita una solennità con ufficio proprio. Nella messa si legge una preghiera che si traduce così: «O Dio, che alla predicazione dell’Apostolo Paolo, facendo risplendere miracolosamente una colonna di pietra, vi siete degnato di istruire i popoli di Reggio col lume della fede, concedeteci, ve ne preghiamo, di meritare di avere in cielo come intercessore colui che abbiamo avuto come predicatore del Vangelo in terra» (Cesari, Atti degli Apostoli, vol. 2).
            Dopo quel giorno, invitati da un tempo favorevole, Paolo e i suoi compagni s’imbarcarono per Pozzuoli, città della Campania distante nove miglia da Napoli. Qui fu grandemente consolato dall’incontro con parecchi che avevano già abbracciato la fede, loro predicata da San Pietro alcuni anni prima.
            Quei buoni cristiani provarono anch’essi grande consolazione e pregarono Paolo di rimanere con loro sette giorni. Paolo, ottenuta licenza dal centurione, si trattenne quel tempo e, in giorno festivo, parlò alla numerosa assemblea di quei fedeli.
            Le notizie dell’arrivo del grande Apostolo in Italia erano già giunte a Roma, e i fedeli di quella città, desiderosi di conoscere di persona l’autore della famosa lettera da Corinto, vennero a incontrarlo al Foro di Appio, oggi chiamato Fossa Nuova, che è una città distante circa 50 miglia da Roma. Continuando il cammino, giunsero alle Tre Taverne, luogo distante circa 30 miglia da Roma, dove trovò molti altri che erano venuti fin là per fargli una festosa accoglienza.
            Accompagnato da quel gran numero di fedeli, che non si saziavano di ammirare quel grande ministro di Gesù Cristo, egli giunse a Roma come condotto in trionfo. Qui la fede cristiana, come si è detto, era già stata predicata da San Pietro, il quale da diciotto anni vi teneva la sede pontificia.

CAPO XXV. Paolo parla agli Ebrei e predica loro Gesù Cristo — Progresso del Vangelo a Roma — Anno di Cristo 61

            Giunto a Roma, Paolo fu consegnato al prefetto del pretorio, cioè al generale delle guardie pretoriane, così chiamate perché avevano la speciale cura di custodire la persona dell’imperatore. Il nome di quell’illustre romano era Afranio Burro, di cui la storia fa menzione molto onorevole.
            Il centurione Giulio si premurò di raccomandare Paolo a quel prefetto, che lo trattò con singolarissima benignità. Le lettere dei governatori Felice e Festo, che certamente dovevano aver fatto conoscere l’innocenza di Paolo, e la buona testimonianza resa dal centurione Giulio, lo misero in buona luce e riverenza presso Burro, il quale gli diede piena libertà di vivere da solo dovunque gli piacesse, a condizione che fosse sorvegliato da un soldato quando usciva di casa. Paolo però aveva sempre al braccio una catena quando era in casa; se usciva, la catena che gli legava il braccio passava dietro per tenerlo collegato con il soldato che lo accompagnava, in modo che quel soldato era sempre attaccato a Paolo attraverso la stessa catena. Il santo Apostolo affittò una casa, nella quale prese alloggio con i suoi compagni, tra cui sono specialmente nominati Luca, Aristarco e Timoteo, quel fedele suo discepolo di Listra.
            Tre giorni dopo il suo arrivo, egli mandò a invitare i principali Ebrei che dimoravano a Roma, pregandoli di venire da lui nel suo alloggio. Raccoltisi in buon numero, egli parlò loro così: «Non vorrei che lo stato in cui mi vedete e le catene da cui sono legato vi mettessero in cattiva opinione di me. Dio sa che non ho fatto nulla contro il mio popolo, né contro le usanze e le leggi della mia patria. Fui incatenato a Gerusalemme e poi consegnato ai Romani. Costoro mi esaminarono e, non avendo trovato in me nulla che meritasse castigo, volevano rimandarmi libero; ma opponendosi fortemente gli Ebrei, fui costretto ad appellarmi a Cesare.
            «Questa è la sola ragione per cui sono stato condotto a Roma. Non voglio qui accusare i miei fratelli, ma desidero farvi sapere il motivo della mia venuta e, nello stesso tempo, parlarvi del Messia e della risurrezione, che è appunto il motivo di queste catene. Su questo argomento desidero molto potervi aprire il mio animo».
            A tali parole, i Giudei risposero: «Veramente a noi non sono arrivate lettere dalla Giudea, né alcuno è venuto a riferirci qualcosa contro di te. Siamo anche noi nel vivo desiderio di conoscere i tuoi sentimenti, poiché sappiamo che la setta dei cristiani è contrastata in tutto il mondo».
            Paolo accettò volentieri l’invito e, assegnando loro un giorno, si raccolse un gran numero di Giudei nella sua casa. Egli allora prese a esporre la dottrina di Gesù Cristo, la divinità della sua persona, la necessità della fede in lui, confermando ogni cosa con le parole dei Profeti e di Mosè. Tale era il desiderio di ascoltare e tale l’ansia di predicare, che il discorso di Paolo si prolungò dalla mattina fino alla sera. Tra gli Ebrei che lo ascoltavano, molti credettero e abbracciarono la fede, ma parecchi gli si opposero fortemente.
            Il santo Apostolo, vedendo tanta ostinazione da parte di coloro che avrebbero dovuto essere i primi a credere, disse loro queste dure parole: «Di questa inflessibile ostinazione che scorgo qui tra voi a Roma, come pure ho trovato in tutte le parti del mondo, la colpa è vostra. Questa vostra durezza fu già predetta dal profeta Isaia, quando disse: “Va’ da questo popolo e dirai: Udrete con le orecchie, ma non intenderete; vedrete con gli occhi, ma non comprenderete nulla; perché il cuore di questo popolo si è indurito, hanno tappato le orecchie e chiuso gli occhi”.
            «State pur certi», proseguiva Paolo, «che la salvezza che voi non volete, Dio non ve la darà; anzi, la porterà ai Gentili, che l’accoglieranno».
            Le parole di Paolo furono quasi inutili per gli Ebrei. Essi partirono da lui continuando le dispute e le vane discussioni su quanto udito, senza aprire il cuore alla grazia che veniva loro offerta. Perciò, profondamente addolorato, Paolo si rivolse ai Gentili, che con umiltà di cuore andavano ad ascoltarlo e in gran numero abbracciavano la fede.
            Il santo Apostolo esprime egli stesso la grande consolazione per il progresso che faceva il Vangelo durante la sua prigionia, scrivendo ai fedeli di Filippi: «Quando voi, o fratelli, avete saputo che ero tenuto prigioniero a Roma, ne avete provato pena, non tanto per la mia persona, quanto per la predicazione del Vangelo. Sappiate dunque che è ben altrimenti. Le mie catene sono tornate a onore di Gesù Cristo e sono servite a farlo meglio conoscere non solamente a quelli della città che venivano da me per farsi istruire nella fede, ma anche nella corte e nel palazzo dello stesso imperatore. Di questo dovete rallegrarvi con me e ringraziare Dio».

CAPO XXVI. San Luca — I Filippesi mandano aiuti a San Paolo — Malattia e guarigione di Epafrodito — Lettera ai Filippesi — Conversione di Onesimo — Anno di Gesù Cristo 61

            Quanto abbiamo finora detto delle azioni di San Paolo fu quasi letteralmente ricavato dal libro degli Atti degli Apostoli, scritto da San Luca. Questo predicatore del Vangelo continuò ad essere fedele compagno di San Paolo; egli predicò il Vangelo in Italia, in Dalmazia, in Macedonia e terminò la vita col martirio a Patrasso, città dell’Acaia. Era medico, pittore e scultore. Ci sono molte statue e pitture della Beata Vergine venerate in diversi paesi che si attribuiscono a San Luca. Ritorniamo a San Paolo.
            Due fatti sono specialmente memorabili nella vita di questo santo Apostolo mentre era imprigionato a Roma: uno riguarda i fedeli di Filippi, l’altro la conversione di Onesimo.
            Tra i molti popoli a cui il santo Apostolo predicò il Vangelo, nessuno gli diede maggiori segni di affetto quanto i Filippesi. Essi gli avevano già somministrato copiose elemosine quando predicava nella loro città, a Tessalonica e a Corinto.
            Come poi intesero che Paolo era tenuto prigioniero a Roma, immaginarono che fosse nel bisogno; perciò fecero una considerevole colletta e, affinché riuscisse più cara e onorevole, la inviarono per mano di San Epafrodito, loro vescovo.
            Questo santo prelato, giunto a Roma, trovò Paolo che non solo aveva bisogno di aiuti pecuniari, ma anche di assistenza personale, poiché era afflitto da grave infermità causata dalla prigionia. Epafrodito si diede a servirlo con tanta sollecitudine, carità e fervore, che, divenuto egli stesso ammalato, si trovava in punto di morte. Ma Dio volle ricompensare la carità del santo e fare in modo che non si aggiungesse afflizione su afflizione al cuore di Paolo, e gli restituì la salute.
            I Filippesi, come seppero che Epafrodito era mortalmente ammalato, furono immersi nella più profonda costernazione. Perciò Paolo stimò bene di rimandarlo a Filippi con una lettera, nella quale spiega il motivo che lo ha indotto a rimandare loro Epafrodito, che chiama suo fratello, cooperatore, collega e loro apostolo. Li esorta quindi a riceverlo con tutta gioia e a onorare ogni persona di simile merito, che, a imitazione di lui, sia pronta a dare la propria vita per il servizio di Cristo. Dice anche ai Filippesi che avrebbe quanto prima mandato Timoteo, affinché gli portasse notizie precise di quella comunità; afferma inoltre che sperava di essere posto in libertà e di poterli ancora una volta vedere.
            Epafrodito fu accolto dai Filippesi come un angelo mandato dal Signore, e la lettera di Paolo riempì il cuore di quei fedeli della più grande consolazione.
            L’altro fatto che rende celebre la prigionia di San Paolo fu la conversione di Onesimo, servo di Filemone, ricco cittadino di Colosse, città della Frigia. Questo Filemone era stato guadagnato alla fede da San Paolo e corrispose così bene alla grazia del Signore che era considerato come modello dei cristiani, e la sua casa era chiamata chiesa perché era sempre aperta per le pratiche di pietà e per l’esercizio della carità verso i poveri. Aveva molti schiavi che lo servivano, e tra essi uno di nome Onesimo. Questi, essendosi dato sventuratamente ai vizi, aspettò l’occasione per fuggire, e rubando una grossa somma di denaro al padrone, scappò a Roma. Lì, dandosi alla crapula e ad altri stravizi, consumò il denaro rubato e in breve si trovò nella più grande miseria. Per caso udì parlare di San Paolo, che forse aveva visto e servito in casa del suo padrone. La carità e benignità del santo Apostolo gli ispirarono fiducia, e decise di presentarsi a lui. Andò e si gettò in ginocchio ai suoi piedi, gli manifestò il suo errore e lo stato infelice della sua anima, e si affidò completamente a lui. Paolo riconobbe in quello schiavo un vero figliuol prodigo. Lo accolse con bontà, come faceva con tutti, e dopo avergli fatto conoscere la gravità del suo fallo e l’infelice stato della sua anima, si dedicò a istruirlo nella fede. Quando vide in lui le disposizioni necessarie per diventare un buon cristiano, lo battezzò nel medesimo carcere. Il buon Onesimo, dopo aver ricevuto la grazia del battesimo, rimase pieno di gratitudine e affetto verso suo padre e maestro, e cominciò a dargliene prova servendolo lealmente nelle necessità della sua prigionia. Paolo desiderava tenerlo presso di sé, ma non voleva farlo senza il permesso di Filemone. Pensò pertanto di mandare Onesimo stesso dal suo padrone. E poiché egli non osava presentarsi a lui, Paolo volle accompagnarlo con una lettera, dicendogli: «Prendi questa lettera e va’ dal tuo padrone, e sta’ sicuro che otterrai più di quanto desideri».

CAPO XXVII. Lettera di San Paolo a Filemone — Anno di Gesù Cristo 62

            La lettera di San Paolo a Filemone è la più facile e breve delle sue lettere, e poiché per la bellezza dei sentimenti può servire da modello a qualsiasi cristiano, la offriamo intera al benevolo lettore. È del seguente tenore:
            «Paolo, prigioniero per la fede di Gesù Cristo, e il fratello Timoteo al nostro caro Filemone, nostro collaboratore, ad Appia nostra sorella carissima, ad Archippo compagno delle nostre fatiche e a tutti i fedeli che si radunano nella tua casa. Dio Padre e Gesù Cristo nostro Signore vi concedano grazia e pace.
            «Ricordandomi continuamente di te nelle mie preghiere, o Filemone, rendo grazie al mio Dio sentendo parlare della tua fede e della tua grande carità verso tutti i fedeli. Ringrazio pure Dio nel sentire la liberalità proveniente dalla tua fede, così manifesta agli occhi di tutti, per le opere buone che si praticano nella tua casa per amore di Gesù Cristo. Noi, o fratello carissimo, siamo stati ricolmi di gioia e di consolazione sapendo che i fedeli hanno trovato tanto sollievo dalla tua bontà. Quindi, sebbene io possa prendermi in Cristo una piena libertà di ordinarti una cosa che è tuo dovere, pure, in nome dell’amore che ti porto, voglio piuttosto supplicarti, anche se io sono quale sono nei tuoi riguardi, vale a dire, anche se sono Paolo già vecchio e attualmente prigioniero per la fede di Gesù Cristo.
            «La preghiera che ti faccio è per Onesimo, mio figlio, che ho generato nelle mie catene, il quale un tempo ti fu inutile, ma che ora sarà utilissimo sia a te sia a me. Te lo rimando e ti prego di accoglierlo come le mie viscere. Avrei voluto trattenerlo presso di me, affinché mi prestasse servizio in tua vece, trovandomi nelle catene che porto per amore del Vangelo; ma non ho voluto fare nulla senza il tuo consenso, perché desidero che il bene che ti propongo sia pienamente volontario, non forzato. Forse egli è stato separato da te per qualche tempo, affinché tu lo riacquisti per sempre, non più come schiavo, ma come qualcuno che da schiavo è divenuto uno dei nostri amati fratelli. Se dunque egli è caro a me, quanto più lo sarà a te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.
            «Se dunque mi consideri come unito a te, accoglilo come accoglieresti me stesso. Se ti ha causato qualche danno o ti deve qualcosa, addebitalo a me. Io, Paolo, lo scrivo di mio pugno: io ti restituirò tutto, per non dirti che tu mi sei debitore di te stesso. Sì, o fratello, mi aspetto di ricevere da te questa gioia nel Signore. Dammi questa consolazione in Cristo! Ti scrivo confidando nella tua obbedienza, sapendo che farai anche più di quanto ti chiedo. Ti prego inoltre di prepararmi un alloggio, perché spero che, grazie alle vostre preghiere, Dio mi concederà di tornare da voi.
            «Epafra, che è prigioniero con me per Cristo Gesù, ti saluta insieme con Marco, Aristarco, Dema e Luca, miei collaboratori. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito. Amen».
            Epafra, di cui parla qui San Paolo, era stato da lui convertito alla fede quando predicava in Frigia. Divenuto poi apostolo della sua patria, fu creato vescovo di Colosse. Andò a Roma per visitare San Paolo e fu imprigionato con lui. Essendo poi stato liberato, tornò a governare la sua Chiesa di Colosse, dove concluse la vita con la corona del martirio.
            Marco, di cui si parla qui, è Giovanni Marco, che dopo aver faticato molto con San Barnaba nella predicazione del Vangelo, si era poi unito a San Paolo, riparando così lungamente la debolezza dimostrata quando abbandonò San Paolo e San Barnaba per tornare a casa.
            Giunto Onesimo a Colosse, si presentò con la lettera al suo padrone, che lo accolse con la massima amorevolezza, contento di riavere non uno schiavo, ma un cristiano. Gli diede pieno perdono e, poiché dalla lettera del santo Apostolo aveva capito che Onesimo avrebbe potuto rendere qualche servizio, lo rimandò a lui con mille saluti e benedizioni.
            Questo servo si mostrò veramente fedele alla vocazione di cristiano. San Paolo, vedendolo adorno delle virtù e della scienza necessaria per essere un predicatore del Vangelo, lo ordinò sacerdote e più tardi lo consacrò vescovo di Efeso. Egli riportò la corona del martirio, e la Chiesa cattolica ne fa memoria il 16 febbraio.

CAPO XXVIII. San Paolo scrive ai Colossesi, agli Efesini e agli Ebrei — Anno di Cristo 62

            Lo zelo del nostro Apostolo era instancabile e, poiché le sue catene lo tenevano a Roma, si ingegnava di mandare i suoi discepoli o di scrivere lettere ovunque ne avesse conosciuto il bisogno. Tra le altre cose, gli fu riferito che a Colosse, dove abitava Filemone, erano sorte questioni a motivo di alcuni falsi predicatori che volevano obbligare alla circoncisione e alle cerimonie legali tutti i Gentili che venivano alla fede. Inoltre, erano giunti a introdurre un culto superstizioso degli angeli. Paolo, come Apostolo dei Gentili, informato di queste pericolose novità, scrisse una lettera che bisognerebbe leggere integralmente per gustarne la bellezza e la sublimità dei sentimenti. Meritano però di essere notate le parole che riguardano la tradizione: «Le cose», egli dice, «che mi stanno maggiormente a cuore, vi saranno dette verbalmente da Tichico e da Onesimo, che per tal fine sono a voi inviati». Queste parole dimostrano come l’Apostolo avesse cose di grande importanza non scritte, ma che mandava a comunicare verbalmente in forma di tradizione.
            Una cosa che causò non lieve inquietudine al nostro Apostolo furono le notizie da Efeso. Quando si trovava a Mileto e convocò i principali pastori, aveva detto loro che, a causa dei mali che doveva sopportare, credeva che non avrebbero più visto il suo volto. Questo lasciò quegli affezionati fedeli nella massima costernazione. Il santo Apostolo, reso consapevole della tristezza che travagliava gli Efesini, scrisse una lettera per consolarli.
            Tra le altre cose, raccomanda di considerare Gesù Cristo capo della Chiesa e di tenersi uniti a lui nella persona dei suoi Apostoli. Raccomanda caldamente di stare lontani da certi peccati che non si devono nemmeno nominare tra i cristiani: «La fornicazione», egli dice, «l’impurità e l’avarizia non siano neppure nominate tra voi» (capitolo 5, versetto 5).
            Rivolgendosi poi ai giovani, dice queste affettuose parole: «Figli, ve lo raccomando nel Signore, siate obbedienti ai vostri genitori, perché è cosa giusta. Onora tuo padre e tua madre, dice il Signore. Se osserverai questo comandamento, sarai felice e vivrai a lungo sulla terra».
            Poi parla così ai genitori: «E voi, padri, non irritate i vostri figli, ma allevateli nella disciplina e nell’istruzione del Signore. Voi, servi, obbedite ai vostri padroni come a Cristo, non per essere visti dagli uomini, ma come servi di Cristo, facendo la volontà di Dio di cuore. Voi, padroni, fate lo stesso verso di loro, mettendo da parte le minacce, sapendo che il Signore loro e vostro è nei cieli, e che presso di lui non c’è preferenza di persone».
            Questa lettera fu portata a Efeso da Tichico, quel fedele discepolo che, con Onesimo, aveva portato la lettera scritta ai Colossesi.
            Da Roma scrisse anche la sua lettera agli Ebrei, cioè ai Giudei della Palestina convertiti alla fede. Il suo scopo era di consolarli e premunirli contro le seduzioni di alcuni altri Giudei. Dimostra come i sacrifici, le profezie e la legge antica si siano realizzati in Gesù Cristo e che a lui solo si deve rendere onore e gloria per tutti i secoli. Insiste affinché rimangano costantemente uniti al Salvatore con la fede, senza la quale nessuno può piacere a Dio; ma sottolinea che questa fede non giustifica senza le opere.

CAPO XXIX. San Paolo è liberato — Martirio di San Giacomo il Minore — Anno di Cristo 63

            Erano già trascorsi quattro anni da quando il santo Apostolo era tenuto prigioniero: due li aveva passati a Cesarea e due a Roma. Nerone lo aveva fatto comparire davanti al suo tribunale e aveva riconosciuto la sua innocenza; ma, fosse per odio verso la religione cristiana o per la noncuranza di quel crudele imperatore, aveva continuato a rimandare Paolo in prigione. Finalmente si risolse a concedergli piena libertà. Si attribuisce comunemente questa decisione ai grandi rimorsi che quel tiranno provava per le nefandezze commesse. Era giunto perfino a far assassinare sua madre. Dopo tali misfatti, provava i più acuti rimorsi, poiché gli uomini, per quanto scellerati, non possono fare a meno di sentire in sé i tormenti della coscienza.
            Nerone, dunque, per placare in qualche modo il suo animo, pensò di compiere alcune opere buone e, tra le altre, di donare la libertà a Paolo. Fatto così padrone di sé stesso, il grande Apostolo si servì della libertà per portare con maggior ardore la luce del Vangelo ad altre nazioni più remote.
            Forse qualcuno si chiederà cosa abbiano fatto gli Ebrei di Gerusalemme quando videro Paolo sottratto alle loro mani. Lo dirò in breve. Essi rivolsero tutto il loro furore contro San Giacomo, detto il Minore, vescovo di quella città. Era morto il governatore Festo; il suo successore non era ancora entrato in carica. I Giudei approfittarono di quell’occasione per presentarsi in massa al sommo sacerdote, chiamato Anano, figlio di quell’Anna e cognato di Caifa, che avevano fatto condannare il Salvatore.
            Decisi a farlo condannare, temevano grandemente il popolo che lo amava come un tenero padre e si rispecchiava nelle sue virtù; era da tutti chiamato il Giusto. La storia ci dice che pregava con tale assiduità che la pelle dei suoi ginocchi era divenuta come quella del cammello. Non beveva né vino né altri liquori inebrianti; era rigidissimo nel digiunare, parco nel mangiare, nel bere e nel vestirsi. Ogni cosa superflua la donava ai poveri.
            Malgrado queste belle qualità, quegli ostinati trovarono modo di dare alla sentenza almeno un’apparenza di giustizia con un’astuzia degna di loro. D’accordo con il sommo sacerdote, i Sadducei, i Farisei e gli Scribi organizzarono un tumulto e corsero da Giacomo, dicendo tra mille schiamazzi: «Devi immediatamente togliere dall’errore questo innumerevole popolo, che crede che Gesù sia il Messia promesso. Poiché tu sei chiamato il Giusto, tutti credono in te; perciò sali sulla sommità di questo tempio, affinché ognuno possa vederti e udirti, e rendi testimonianza alla verità».
            Lo condussero dunque su un’alta loggia all’esterno del tempio e, quando lo videro lassù, esclamarono fingendo: «O uomo giusto, dicci cosa si deve credere di Gesù crocifisso». Il luogo non poteva essere più solenne. O rinnegare la fede, o, pronunciando una parola a favore di Gesù Cristo, essere subito messo a morte. Ma lo zelo del santo Apostolo seppe trarre tutto il vantaggio da quella occasione.
            «E perché mai», esclamò ad alta voce, «perché mi interrogate su Gesù, Figlio dell’uomo e insieme Figlio di Dio? Invano fingete di mettere in dubbio la mia fede in questo vero Redentore. Io dichiaro davanti a voi che egli sta in cielo, assiso alla destra di Dio Onnipotente, da dove verrà a giudicare tutto il mondo». Molti credettero in Gesù Cristo e, nella semplicità del loro animo, cominciarono a esclamare: «Gloria al Figlio di Davide».
            I Giudei, delusi nelle loro aspettative, si misero furiosamente a gridare: «Ha bestemmiato! Sia immediatamente precipitato e tolto di vita». Corsero su subito e lo spinsero giù sulla lastra della piazza.
            Non morì all’istante e, riuscendo a rialzarsi, si mise in ginocchio e, a esempio del Salvatore, invocava la divina misericordia sui suoi nemici, dicendo: «Perdonali, Signore, perché non sanno quello che fanno».
            Allora i furibondi nemici, istigati dal pontefice, gli lanciarono addosso una pioggia di sassi finché uno, datogli un colpo di mazza sul capo, lo stese morto. Molti fedeli furono trucidati insieme a questo Apostolo, sempre per la medesima causa, cioè in odio al cristianesimo (cfr. Eusebio, Storia Ecclesiastica).

CAPO XXX. Altri viaggi di San Paolo — Scrive a Timoteo e a Tito — Suo ritorno a Roma — Anno di Cristo 68

            Liberato dalle catene della prigione, San Paolo si diresse verso quei luoghi dove aveva intenzione di andare. Si recò dunque in Giudea a visitare gli Ebrei, ma vi si fermò poco, perché quegli ostinati stavano già riaccendendo la primitiva persecuzione. Andò a Colosse, secondo la promessa fatta a Filemone. Si recò a Creta, dove predicò il Vangelo e dove ordinò Tito vescovo di quell’isola. Ritornò in Asia per visitare le Chiese di Troade, Iconio, Listra, Mileto, Corinto, Nicopoli e Filippi. Da questa città scrisse una lettera al suo Timoteo, che aveva ordinato vescovo di Efeso.
            In questa lettera, l’Apostolo gli dà diverse regole per la consacrazione dei vescovi e dei sacerdoti e per l’esercizio di molte cose riguardanti la disciplina ecclesiastica. Quasi nello stesso tempo scrisse una lettera a Tito, vescovo di Creta, dandogli quasi gli stessi consigli dati a Timoteo e invitandolo a venire presto a vederlo.
            Si crede comunemente che egli sia andato a predicare in Spagna e in molti altri luoghi. Impiegò cinque anni in missioni e fatiche apostoliche. Ma i fatti particolari di questi viaggi, le conversioni operate per sua cura nei vari paesi, non ci sono conosciuti. Diciamo solo con Sant’Anselmo che «il santo Apostolo corse dal Mar Rosso fino all’Oceano, portando ovunque la luce della verità. Egli fu come il sole che illumina tutto il mondo dall’Oriente all’Occidente, sicché fu più il mondo e i popoli a mancare a Paolo, che non Paolo a mancare a qualcuno degli uomini. Questa è la misura del suo zelo e della sua carità».
            Mentre Paolo era occupato nelle fatiche dell’apostolato, seppe che a Roma era scoppiata una feroce persecuzione sotto l’impero di Nerone. Paolo immaginò subito il grave bisogno di sostenere la fede in simili occasioni e prese immediatamente il cammino verso Roma.
            Giunto in Italia, trovò ovunque pubblicati i bandi di Nerone contro i fedeli. Sentiva dei delitti e delle calunnie loro imputate; ovunque vedeva croci, roghi e altri generi di supplizi preparati ai confessori della fede, e ciò raddoppiava in Paolo il desiderio di trovarsi presto tra quei fedeli. Appena arrivato, come colui che offriva a Dio sé stesso, si diede a predicare nelle pubbliche piazze, nelle sinagoghe, tanto ai Gentili quanto agli Ebrei. A questi ultimi, che si erano quasi sempre dimostrati ostinati, predicava l’imminente adempimento delle profezie del Salvatore, che preannunciavano la distruzione della città e del tempio di Gerusalemme con la dispersione di tutta quella nazione. Suggeriva però un mezzo per evitare i divini flagelli: convertirsi di cuore e riconoscere il loro Salvatore in quel Gesù che avevano crocifisso.
            Ai Gentili predicava la bontà e la misericordia di Dio, che li invitava a penitenza; perciò, esortava ad abbandonare il peccato, a mortificare le passioni e ad abbracciare il Vangelo. A tale predicazione, confermata da continui miracoli, gli uditori venivano in folla a chiedere il battesimo. Così la Chiesa, perseguitata con il ferro, il fuoco e mille terrori, appariva più bella e fiorente e accresceva ogni giorno il numero dei suoi eletti.
            Che dire di più? San Paolo spinse tanto oltre il suo zelo e la sua carità che riuscì a guadagnare un certo Proclo, intendente del palazzo imperiale, e la stessa moglie dell’imperatore. Costoro abbracciarono con ardore la fede e morirono martiri.

CAPO XXXI. San Paolo è di nuovo imprigionato — Scrive la seconda lettera a Timoteo — Suo martirio — Anno di Cristo 69-70

            Con San Paolo era venuto a Roma anche San Pietro, che da 25 anni vi teneva la sede della cristianità. Egli era anche andato altrove a predicare la fede e, come fu informato della persecuzione suscitata contro i cristiani, tornò subito a Roma. Lavorarono di comune accordo i due principi degli Apostoli finché Nerone, indispettito per le conversioni che si erano fatte nella sua corte e più ancora per la morte ignominiosa toccata al mago Simone (come raccontato nella vita di San Pietro), ordinò che fossero ricercati con il massimo rigore San Pietro e San Paolo e condotti nel carcere Mamertino, ai piedi del colle Capitolino. Nerone aveva in animo di far condurre i due Apostoli al supplizio immediatamente, ma ne fu distolto da affari politici e da una congiura tramata contro di lui. Inoltre, aveva deliberato di rendere glorioso il suo nome tagliando l’istmo di Corinto, una lingua di terra larga circa nove miglia. Questa impresa non si poté realizzare, ma lasciò un anno di tempo a Paolo per guadagnare ancora anime a Gesù Cristo.
            Egli riuscì a convertire molti prigionieri, alcune guardie e altri ragguardevoli personaggi, che per desiderio di istruirsi o per curiosità andavano ad ascoltarlo, poiché San Paolo durante la sua prigionia poteva essere liberamente visitato e scriveva lettere dove ne avesse conosciuto il bisogno. È dalla prigione di Roma che scrisse la seconda lettera a Timoteo.
            In questa lettera, l’Apostolo annuncia vicina la sua morte, dimostra vivo desiderio che lo stesso Timoteo andasse da lui per assisterlo, essendo quasi da tutti abbandonato. Questa lettera si può chiamare il testamento di San Paolo; e, tra le molte cose, fornisce anche una delle maggiori prove a favore della tradizione. «Quello che hai udito da me», gli dice, «procura di trasmetterlo a uomini fedeli e capaci di insegnarlo ad altri dopo di te». Da queste parole apprendiamo che, oltre alla dottrina scritta, vi sono altre verità non meno utili e certe che devono essere trasmesse oralmente, in forma di tradizione, con una successione ininterrotta per tutti i tempi futuri.
            Dà poi molti utili consigli a Timoteo per la disciplina della Chiesa, per riconoscere varie eresie che si stavano diffondendo tra i cristiani. E, per mitigare la ferita che la notizia della sua imminente morte gli avrebbe causato, lo incoraggia così: «Non ti contristare per me, anzi, se mi vuoi bene, rallegrati nel Signore. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora non mi resta che ricevere la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno, quando, avendo offerto in sacrificio la mia vita, mi presenterò a lui. Tale corona non la renderà solo a me, ma a tutti coloro che, con opere buone, si preparano a riceverla nella sua venuta».
            Paolo ebbe nella sua prigione un conforto da un certo Onesiforo. Costui, essendo venuto a Roma e avendo saputo che Paolo, suo antico maestro e padre in Gesù Cristo, era in carcere, andò a trovarlo e si offrì di servirlo. L’Apostolo provò grande consolazione per una così tenera carità e, scrivendo a Timoteo, gli fa molti elogi e prega Dio per lui.
            «Faccia Dio», gli scrive, «misericordia alla famiglia di Onesiforo, il quale spesso mi ha confortato e non si è vergognato delle mie catene; al contrario, venuto a Roma, mi ha cercato con sollecitudine e mi ha trovato. Il Signore gli conceda di trovare misericordia presso di lui in quel giorno. E tu sai bene quanti servizi mi abbia reso a Efeso».
            Intanto Nerone tornò da Corinto tutto indispettito perché l’impresa dell’istmo non era riuscita. Si mise con rabbia maggiore a perseguitare i cristiani; e il suo primo atto fu di far eseguire la sentenza di morte contro San Paolo. Prima di tutto fu battuto con le verghe, e si mostra ancora a Roma la colonna a cui era legato quando subì quella flagellazione. È vero che con essa perdeva il privilegio di cittadinanza romana, ma acquistava il diritto di cittadino del cielo; perciò provava la più grande gioia nel vedersi rassomigliato al suo divino Maestro. Questa flagellazione era il preludio dell’essere poi decapitato.
            Paolo era condannato a morte perché aveva oltraggiato gli dèi; per questo solo titolo era permesso di tagliare la testa a un cittadino romano. Bella colpa! Essere ritenuto empio perché, invece di adorare pietre e demoni, si vuole adorare il solo vero Dio e suo Figlio Gesù Cristo. Dio gli aveva già rivelato il giorno e l’ora della sua morte; perciò provava una gioia già tutta celeste. Cupio (Desidero), esclamava, cupio dissolvi et esse cum Christo (essere sciolto da questo corpo per essere con Cristo). Infine, da una masnada di sgherri fu tratto di prigione e condotto fuori di Roma per la porta che si chiama Ostiense, facendolo camminare verso una palude lungo il Tevere, giunsero a un luogo chiamato Acque Salvie, circa tre miglia lontano da Roma.
            Raccontano che una matrona, chiamata Plautilla, moglie di un senatore romano, vedendo il santo Apostolo malconcio nel corpo e condotto a morte, si mise a piangere dirottamente. San Paolo la consolò dicendole: «Non piangere, ti lascerò una memoria di me che ti sarà molto cara. Dammi il tuo velo». Ella glielo diede. Con questo velo furono al santo bendati gli occhi prima di essere decapitato. E, per ordine del santo, fu da una pia persona restituito insanguinato a Plautilla, che lo conservò come reliquia.
            Giunto Paolo al luogo del supplizio, piegò le ginocchia e, con il volto rivolto al cielo, raccomandò a Dio l’anima sua e la Chiesa; poi chinò il capo e ricevette il colpo della spada che gli troncò la testa dal busto. La sua anima volò a trovare quel Gesù che da tanto tempo bramava di vedere.
            Gli angeli lo accolsero e lo introdussero tra immenso giubilo a partecipare della felicità del cielo. È certo che il primo a cui egli dovette rendere grazie fu Santo Stefano, al quale, dopo Gesù, era debitore della sua conversione e della sua salvezza.

CAPO XXXII. Sepoltura di San Paolo — Meraviglie operate presso la sua tomba — Basilica a lui dedicata

            Il giorno in cui San Paolo fu messo a morte fuori di Roma, alle Acque Salvie, fu lo stesso in cui San Pietro ottenne la palma del martirio ai piedi del monte Vaticano, il 29 giugno, essendo San Paolo in età di 65 anni. Il Baronio, che è chiamato padre della storia ecclesiastica, racconta come la testa di San Paolo, appena tagliata dal corpo, grondò latte invece di sangue. Due soldati, alla vista di tal miracolo, si convertirono a Gesù Cristo. La sua testa poi, cadendo a terra, fece tre salti, e dove toccò terra zampillarono tre fonti di acqua viva. Per conservare la memoria di questo glorioso avvenimento, fu innalzata una chiesa le cui mura racchiudono queste fontane, che ancora oggi si chiamano Fontane di San Paolo (cfr. F. Baronio, anno 69-70).
            Molti viaggiatori (cfr. Cesari e Tillemont) si recarono sul luogo per essere testimoni di questo fatto e ci assicurano che quelle tre fonti da loro viste e assaggiate hanno un sapore come di latte. In quei primi tempi era grandissima la sollecitudine dei cristiani per raccogliere e seppellire i corpi di coloro che davano la vita per la fede. Due donne, chiamate una Basilissa e l’altra Anastasia, studiarono il modo e il tempo per recuperare il cadavere del santo Apostolo e, di notte, gli diedero sepoltura due miglia lontano dal luogo dove aveva subito il martirio, a distanza di un miglio da Roma. Nerone, tramite le sue spie, venne a sapere dell’opera di quelle pie donne e ciò bastò perché le facesse morire, troncando loro le mani, i piedi e poi la testa.
            Sebbene i Gentili sapessero che il corpo di Paolo era stato seppellito dai fedeli, non poterono mai sapere il luogo esatto. Ciò era noto solo ai cristiani, che lo tenevano segreto come il più caro tesoro e gli rendevano l’onore maggiore possibile. Ma la stima che i fedeli avevano di quelle reliquie giunse a tal punto che alcuni mercanti d’Oriente, venuti a Roma, tentarono di rubarle e portarle nel loro paese. Segretamente lo dissotterrarono nelle catacombe, a due miglia da Roma, aspettando il momento propizio per trasportarlo. Ma nell’atto di compiere il loro disegno, si levò un orribile temporale con lampi e fulmini terribili, sicché furono costretti ad abbandonare l’impresa. Saputasi la cosa, i cristiani di Roma andarono a prendere il corpo di Paolo e lo riportarono al suo primo luogo lungo la via Ostiense.
            Al tempo di Costantino il Grande fu edificata una basilica superba in onore e sopra il sepolcro del nostro Apostolo. In ogni tempo, re e imperatori, dimentichi della loro grandezza, pieni di timore e di venerazione, si recarono a quel sepolcro per baciare la cassa che custodisce le ossa del santo Apostolo.
            Gli stessi Romani Pontefici non si avvicinavano, né si avvicinano, al luogo della sua sepoltura se non pieni di venerazione, e non hanno mai permesso che alcuno prelevasse una particella di quelle ossa venerande. Vari principi e re ne fecero vive richieste, ma nessun Papa giudicò di poterli accontentare. Questa grande riverenza era molto accresciuta dai continui miracoli che si compivano presso quel sepolcro. San Gregorio Magno ne riferisce molti e assicura che nessuno entrava in quel tempio a pregare senza tremare. Quelli che avessero osato profanarlo o tentato di asportarne anche una piccola particella erano da Dio puniti con manifesta vendetta.
            Gregorio XI fu il primo che, in una pubblica calamità, quasi costretto dalle preghiere e dalle istanze del popolo di Roma, prese il capo del Santo, lo sollevò in alto, lo mostrò alla moltitudine che piangeva di tenerezza e devozione e, immediatamente, lo ripose da dove lo aveva prelevato.
            Ora, il capo di questo grande Apostolo è nella chiesa di San Giovanni in Laterano; il resto del corpo fu sempre conservato nella basilica di San Paolo fuori le mura, lungo la via Ostiense, a un miglio da Roma.
            Anche le sue catene furono oggetto di devozione presso i fedeli cristiani. Per contatto di quei ferri gloriosi si operarono molti miracoli, e i più grandi personaggi del mondo ritennero sempre una reliquia preziosa poter avere un po’ di limatura di esse.

CAPO XXXIII. Ritratto di San Paolo — Immagine del suo spirito — Conclusione

            Affinché rimanga meglio impressa la devozione verso questo principe degli Apostoli, è utile dare un’idea del suo aspetto fisico e del suo spirito.
            Paolo non aveva un aspetto molto avvenente, come egli stesso afferma. Era di statura piccola, di costituzione forte e robusta, e ne diede prova con le lunghe e gravi fatiche da lui sostenute nella sua carriera, senza essere mai stato ammalato, eccetto per i mali causati dalle catene e dalla prigionia. Solo verso la fine dei suoi giorni camminava un po’ curvo. Aveva il viso chiaro, la testa piccola e quasi del tutto calva, il che denotava un carattere sanguigno e focoso. Aveva la fronte ampia, sopracciglia nere e basse, naso aquilino, barba lunga e folta. Ma i suoi occhi erano estremamente vivaci e brillanti, con un’aria dolce che temperava l’impeto dei suoi sguardi. Questo è il ritratto del suo aspetto fisico.
            Ma che dire del suo spirito? Lo conosciamo dai suoi stessi scritti. Aveva un ingegno acuto e sublime, animo nobile, cuore generoso. Tale era il suo coraggio e la sua fermezza che traeva forza e vigore dalle stesse difficoltà e dai pericoli. Era molto esperto nella scienza della religione ebraica. Era profondamente erudito nelle Sacre Scritture e tale scienza, aiutata dai lumi dello Spirito Santo e dalla carità di Gesù Cristo, lo rese quel grande Apostolo che fu soprannominato il Dottore dei Gentili. San Giovanni Crisostomo, devotissimo del nostro santo, desiderava grandemente poter vedere San Paolo dal pulpito, perché, diceva, i più grandi oratori dell’antichità sarebbero sembrati languidi e freddi al suo confronto. Non occorre dire altro delle sue virtù, poiché quanto abbiamo finora esposto non è altro che una tessitura delle virtù eroiche che egli fece risplendere in ogni luogo, in ogni tempo e con ogni genere di persone.
            Per concludere quanto detto su questo grande santo, merita di essere notata una virtù che egli fece risplendere sopra ogni altra: la carità verso il prossimo e l’amore verso Dio. Egli sfidava tutte le creature a separarlo dall’amore del suo divino Maestro. «Chi mi separerà», esclamava, «dall’amore di Gesù Cristo? Forse le tribolazioni o le angustie, o la fame, o la nudità, o i pericoli, o le persecuzioni? No, certamente. Io sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né potenze, né cose presenti né future, né alcuna creatura potrà separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù nostro Signore». Questo è il carattere del vero cristiano: essere disposto a perdere tutto, a soffrire tutto, piuttosto che dire o fare la minima cosa contraria all’amore di Dio.
            San Paolo passò più di trent’anni della sua vita come nemico di Gesù Cristo; ma appena fu illuminato dalla sua celeste grazia, si diede tutto a lui, né mai più da lui si separò. Impiegò poi oltre trentasei anni nelle più austere penitenze, nelle più dure fatiche, e ciò per glorificare quel Gesù che aveva perseguitato.
            Cristiano lettore, forse tu che leggi e io che scrivo avremo passato una parte della vita nell’offesa del Signore! Ma non perdiamo animo: c’è ancora tempo per noi; la misericordia di Dio ci attende.
            Ma non rimandiamo la conversione, perché se aspettiamo domani per sistemare le cose dell’anima, corriamo il grave rischio di non avere più tempo. San Paolo faticò trentasei anni al servizio del Signore; ora da 1800 anni gode l’immensa gloria del cielo e la godrà per tutti i secoli. La medesima felicità è preparata anche per noi, purché ci diamo a Dio mentre abbiamo tempo e perseveriamo nel santo servizio fino alla fine. È nulla ciò che si soffre in questo mondo, ma è eterno ciò che godremo nell’altro. Così ci assicura lo stesso San Paolo.


Terza edizione
Libreria Salesiana Editrice
1899
Proprietà dell’editore
S. Pier d’Arena, Scuola Tipografica Salesiana
Ospizio S. Vincenzo de’ Paoli
(N. 1267 — M)