L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (1/5)
La celebrazione annuale della memoria di tutti i defunti ci mette davanti agli occhi una realtà che nessuno può negare: il fine della nostra vita terrena. Per tanti, parlare della morte sembra una cosa macabra, da evitare assolutamente. Ma non era così per san Giovanni Bosco; per tutta la sua vita aveva coltivato l’Esercizio della Buona Morte fissando a questo scopo l’ultimo giorno del mese. Chi sa che non sia questo il motivo che il Signore lo ha preso con sé nell’ultimo giorno di gennaio del 1888 trovandolo preparato…
Jean Delumeau, nell’introduzione della sua opera su La paura in Occidente, racconta l’angoscia da lui provata all’età di dodici anni quando, novello alunno interno di un collegio salesiano, ascoltò per la prima volta le “inquietanti sequenze” delle litanie della buona morte, seguite da un Pater ed Ave “per quello tra noi che sarà il primo a morire”. A partire da quell’esperienza, dai suoi antichi timori, dai suoi difficili sforzi per abituarsi alla paura, dalle sue meditazioni d’adolescente sui fini ultimi, dalla personale paziente ricerca della serenità e della gioia nell’accettazione, lo storico francese ha elaborato un progetto di indagine storiografica focalizzato sul ruolo della “colpevolizzazione” e sulla “pastorale della paura” nella storia dell’Occidente e ha tratto la chiave interpretativa “di un panorama storico assai ampio: per la Chiesa – scrive – la sofferenza e l’annientamento (provvisorio) del corpo sono da temere meno che il peccato e l’inferno. L’uomo non può nulla contro la morte, ma – coll’aiuto di Dio – gli è possibile evitare le pene eterne. Da quel momento un nuovo tipo di paura – teologica – si sostituiva a un’altra che era anteriore, viscerale e spontanea: si trattava di una medicazione eroica, ma sempre di una medicazione, giacché introduceva uno sfogo là dove non c’era che vuoto; di questo genere fu la lezione che i religiosi incaricati della mia educazione cercarono d’insegnarmi”[1].
Anche Umberto Eco ricordava con ironica simpatia l’esercizio della buona morte che gli veniva proposto nell’Oratorio di Nizza Monferrato:
“Le religioni, i miti, i riti antichi ci rendevano la morte, seppure sempre temibile, familiare. Ci abituavano ad accettarla le grandi celebrazioni funerarie, gli urli delle prefiche, le grandi Messe da Requiem. Ci preparavano alla morte le prediche sull’inferno e ancora durante la mia infanzia ero invitato a leggere le pagine sulla morte dal Giovane provveduto di Don Bosco, che non era solo il prete allegro che faceva giocare i bambini, ma aveva un’immaginazione visionaria e fiammeggiante. Egli ci ricordava che non sappiamo dove ci sorprenderà la morte – se nel nostro letto, sul lavoro, o per strada, per la rottura di una vena, un catarro, un impeto di sangue, una febbre, una piaga, un terremoto, un fulmine, «forse appena finita la lettura di questa considerazione». In quel momento ci sentiremo la testa oscurata, gli occhi addolorati, la lingua arsa, le fauci chiuse, oppresso il petto, il sangue gelato, la carne consumata, il cuore trafitto. Di qui la necessità di praticare l’Esercizio della Buona Morte […]. Puro sadismo, si dirà. Ma cosa insegniamo oggi ai nostri contemporanei? Che la morte si consuma lontano da noi in ospedale, che di solito non si segue più il feretro al cimitero, che i morti non li vediamo più. […] Così la scomparsa della morte dal nostro orizzonte di esperienza immediato ci renderà molto più terrorizzati, quando il momento si approssimerà, di fronte a questo evento che pure ci appartiene sin dalla nascita – e con cui l’uomo saggio viene a patti per tutta la vita”[2].
Nelle case salesiane la pratica mensile della buona morte, con la recita delle litanie inserite da don Bosco nel Giovane provveduto, rimase in uso dal 1847 fino alle soglie del Concilio.[3] Delumeau narra che tutte le volte che gli capitava di leggere quelle litanie ai suoi studenti del Collège de France constatava quanto ne rimanessero sbalorditi: “È la prova – scrive – d’un cambiamento rapido e profondo di mentalità da una generazione all’altra. Essendo rapidamente invecchiata dopo essere stata a lungo attuale, questa preghiera per una buona morte è diventata documento di storia nella misura in cui riflette una lunga tradizione di pedagogia religiosa”.[4] Lo studioso delle mentalità, infatti, ci insegna come i fenomeni storici, per evitare forvianti anacronismi, devono sempre essere affrontati in relazione alla loro coerenza interna e con rispetto dell’alterità culturale, alla quale si deve ricondurre ogni rappresentazione mentale collettiva, ogni credenza e pratica culturale o cultuale delle società antiche. Fuori di quei quadri antropologici, di quell’insieme di conoscenze e di valori, di modi di pensare e di sentire, di abitudini e modelli di comportamento diffusi in un determinato contesto culturale, che plasmano la mentalità collettiva, è impossibile attuare un approccio critico corretto.
Per quanto ci riguarda, il racconto di Delumeau è documento di come l’anacronismo non insidia soltanto lo storico. Anche il pastore e l’educatore rischiano di perpetuare pratiche e formule fuori degli universi culturali e spirituali che le generarono: così esse, oltre ad apparire per lo meno strane alle giovani generazioni, possono risultare persino controproducenti, essendo venuti meno l’orizzonte di senso globale e le “attrezzature mentali” e spirituali che le rendevano significative. Questa è stata la sorte della preghiera della buona morte riproposta, per oltre un secolo, agli allievi delle opere salesiane in tutto il mondo, poi – intorno al 1965 – del tutto abbandonata, senza alcuna forma di sostituzione che ne salvaguardasse gli aspetti positivi. L’abbandono non era dovuto soltanto alla sua obsolescenza. Era anche un sintomo di quel processo in atto di eclisse della morte nella cultura occidentale, una sorta di “interdetto” e di “proibizione” oggi fortemente denunciato dagli studiosi e dai pastori.[5]
Il nostro contributo intende indagare il significato e il valore educativo dell’esercizio della buona morte nella pratica di don Bosco e delle prime generazioni salesiane, mettendolo in relazione con una feconda tradizione secolare, per poi individuarne la peculiarità spirituale attraverso le testimonianze narrative lasciate dal Santo.
[1] Jean Delumeau, La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII). La città assediata, Torino, SEI, 1979, 42-44.
[2] Umberto Eco, “La bustina di Minerva: Dov’è andata la morte?”, in L’Espresso, 29 novembre 2012.
[3] Le “Preghiere per la buona morte” sono ancora riportate, con poche varianti sostanziali, nel riveduto manuale di preghiera per le istituzioni educative salesiane d’Italia, che sostituiva definitivamente il Giovane Provveduto, usato fino a quel momento: Centro Compagnie Gioventù Salesiana, In preghiera. Manuale di pietà ispirato al Giovane Provveduto di san Giovanni Bosco, Torino, Opere Don Bosco, 1959, 360-362.
[4] Delumeau, La paura in Occidente, 43.
[5] Cf. Philippe Ariés, Storia della morte in Occidente, Milano, BUR, 2009; Jean-Marie R. Tillard, La morte: enigma o mistero? Magnano (BI), Edizioni Qiqajon, 1998.