(continuazione dall’articolo precedente)
2. Le litanie della buona morte nel contesto della spiritualità giovanile promossa da don Bosco
Un discorso a parte meritano le litanie della buona morte inserite nel Giovane provveduto, che costituivano soltanto un momento dell’esercizio, quello emotivamente più intenso. Il cuore della pratica mensile, infatti, era rappresentato dall’esame di coscienza, dalla confessione ben fatta, dalla comunione fervente, dalla decisione di darsi totalmente a Dio e dalla formulazione di proponimenti operativi di carattere morale e spirituale. Nei volumi di predicazione o nei manualetti dei secoli precedenti non troviamo testi analoghi alla sequenza litanica del Giovane provveduto, la cui composizione don Bosco attribuisce a “una donzella protestante convertita alla Religione Cattolica nell’età di anni 15, e morta di anni 18 in odore di santità”.[1] Egli l’aveva attinta da libri di pietà pubblicati in quegli anni in Piemonte.[2] La preghiera, “indulgenziata da Pio VII, ma circolante già alla fine del Settecento”,[3] poteva servire come strumento efficace di mozione degli affetti in forza della drammatizzazione immaginativa degli ultimi istanti di vita: collocava il fedele sul letto di morte invitandolo a passare in rassegna le varie parti del corpo e i sensi corrispondenti, considerati nello stato in cui si sarebbero trovati al momento dell’agonia, per scuoterlo, per stimolare la confidenza nella divina misericordia e spingerlo a propositi di conversione e perseveranza. Era un esercizio nel quale lo spirito romantico trovava gusto e che don Bosco riteneva particolarmente indicato sul piano emotivo e spirituale, come risulta da alcuni suoi testi narrativi. La formula ebbe grande fortuna nel corso dell’Ottocento: la troviamo riprodotta in varie raccolte di preghiere anche fuori dei confini piemontesi.[4] Ci pare interessante riportarla nella sua interezza:
Gesù Signore, Dio di bontà, Padre di misericordia, io mi presento dinanzi a Voi con cuore umiliato e contrito: vi raccomando la mia ultima ora e ciò che dopo di essa mi attende.
Quando i miei piedi immobili mi avvertiranno che la mia carriera in questo mondo è presso a finire, misericordioso Gesù, abbiate pietà di me.
Quando le mie mani tremole e intorpidite non potranno più stringervi, Crocifisso mio bene, e mio malgrado lascierovvi cadere sul letto del mio dolore, misericordioso ecc.
Quando i miei occhi offuscati e stravolti dall’orror della morte imminente fisseranno in Voi gli sguardi languidi e moribondi, misericordiosoecc.
Quando le mie labbra fredde e tremanti pronunzieranno per l’ultima volta il vostro Nome adorabile, misericordiosoecc.
Quando le mie guance pallide e livide inspireranno agli astanti la compassione ed il terrore, e i miei capelli bagnati dal sudor della morte, sollevandosi sulla mia testa annunzieranno prossimo il mio fine, misericordiosoecc.
Quando le mie orecchie, presso a chiudersi per sempre a’ discorsi degli uomini, si apriranno per intendere la vostra voce, che pronunzierà l’irrevocabile sentenza, onde verrà fissata la mia sorte per tutta l’eternità, misericordiosoecc.
Quando la mia immaginazione agitata da orrendi e spaventevoli fantasmi sarà immersa in mortali tristezze, ed il mio spirito turbato dalla vista delle mie iniquità, dal timore della vostra giustizia, lotterà contra l’angelo delle tenebre, che vorrà togliermi la vista consolatrice delle vostre misericordie e precipitarmi in seno alla disperazione, misericordiosoecc.
Quando il mio debole cuore oppresso dal dolor della malattia sarà sorpreso dagli orrori di morte, e spossato dagli sforzi che avrà fatto contro a’ nemici della mia salute, misericordioso ecc.
Quando verserò le mie ultime lacrime, sintomi della mia distruzione, ricevetele in sacrificio di espiazione, acciocché io spiri come una vittima di penitenza, ed in quel terribile momento, misericordioso ecc.
Quando i miei parenti ed amici, stretti a me d’intorno, s’inteneriranno sul dolente mio stato, e v’invocheranno per me, misericordioso ecc.
Quando avrò perduto l’uso di tutti i sensi, ed il mondo intero sarà sparito da me, ed io gemerò nelle angosce della estrema agonia e negli affanni di morte, misericordioso ecc.
Quando gli ultimi sospiri del cuore sforzeranno l’anima mia ad uscire dal corpo, accettateli come figli di una santa impazienza di venire a Voi, e Voi misericordioso ecc.
Quando l’anima mia sull’estremità delle labbra uscirà per sempre da questo mondo e lascerà il mio corpo pallido, freddo e senza vita, accettate la distruzione del mio essere, come un omaggio che io vengo a rendere alla vostra divina maestà ed allora, misericordioso ecc.
Quando finalmente l’anima mia comparirà dinanzi a Voi, e vedrà per la prima volta lo splendore immortale della vostra maestà, non la rigettate dal vostro cospetto; degnatevi ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinché io canti eternamente le vostre lodi: misericordioso ecc.
Orazione: Oh Dio, che condannandoci alla morte, ce ne avete nascosto il momento e l’ora, fatte ch’io passando nella giustizia e nella santità tutti i giorni della vita, possa meritare di uscire di questo mondo nel vostro santo amore, per i meriti del Nostro Signor Gesù Cristo, che vive e regna con Voi nell’unità dello Spirito Santo. Così sia.[5]
Il razionalismo settecentesco e il gusto barocco per il macabro e il funereo, presente ancora nell’Apparecchio alla morte di sant’Alfonso Maria de’ Liguori,[6] è superato nell’Ottocento dalla sensibilità romantica che preferisce percorrere la via del sentimento, la quale, “per giungere all’intelletto, va prima direttamente al cuore, e facendo sentire al cuore la forza e la bellezza della religione, fissa l’attenzione dell’intelletto, e ne agevola il consentimento”, come scriveva mons. Angelo Antonio Scotti.[7] Dunque anche nella considerazione della morte si riteneva cosa ottima insistere sulle leve emotive e sugli affetti per suscitare una risposta generosa al dono assoluto di sé fatto dal divin Salvatore per la salvezza dell’umanità. Gli autori spirituali e i predicatori ritenevano importante e necessario descrivere “gli affanni e le oppressioni che sono inseparabili dagli sforzi che naturalmente l’anima deve fare nel rompere i legami del corpo”,[8] insieme alla raffigurazione della morte serena dei giusti. Volevano calare la fede nella concretezza dell’esistenza per stimolare la riforma dei costumi e il proposito d’una più genuina e fervente vita cristiana: “Certamente la speranza di meritare una buona agonia ed una santa morte è stata e sarà sempre la più potente molla per indurre gli uomini ad abbandonare il vizio; siccome lo spettacolo di un uomo malvagio, che tal muoia qual visse, è una grande lezione per tutti i mortali”.[9]
La sequenza delle litanie della buona morte inserita nel Giovane provveduto va considerata, dunque, del tutto funzionale al buon esito del ritiro mensile e agli ideali di vita cristiana che il Santo proponeva ai giovani, oltre che particolarmente adatta alla sensibilità emotiva e culturale di quel preciso momento storico. Se oggi la lettura di quelle formule genera il senso d’inquietudine rievocato da Delumeau e offre una rappresentazione “nel complesso affliggente” della pedagogia religiosa di don Bosco,[10] questo avviene soprattutto perché esse sono estrapolate dai loro quadri di riferimento. Invece, come si rileva dalla pratica educativa dell’Oratorio e dalle testimonianze narrative lasciate da don Bosco, non solo l’animo di quei giovani trovava gusto e stimolo nel recitarle, ma esse contribuivano efficacemente a rendere l’esercizio della buona morte fecondo di frutti morali e spirituali. Per sondarne la primitiva fecondità educativa, dobbiamo ancorarle all’insieme della sostanziosa proposta di vita cristiana presentata da don Bosco e al vissuto fervido e operoso, stimolante dell’Oratorio.
L’orizzonte globale di riferimento si può cogliere già nelle piccole meditazioni che introducono il Giovane provveduto, dove don Bosco intende soprattutto presentare “un metodo di vita breve e facile, ma sufficiente” perché i giovani lettori possano “diventare la consolazione dei parenti, l’onore della patria, buoni cittadini in terra per essere poi un giorno fortunati abitatori del Cielo”.[11] Innanzitutto egli li incoraggia ad “alzare lo sguardo”, a contemplare la bellezza del creato e la dignità altissima dell’uomo, la più sublime delle creature, dotato di un’anima spirituale fatta per amare il Signore, per crescere nella virtù e nella santità, destinato al Paradiso, alla comunione eterna con Dio.[12] La considerazione dell’illimitato amore divino, rivelatoci nel sacrificio di Cristo per la salvezza dell’umanità, e della particolare predilezione di Dio verso i ragazzi e i giovani, deve muoverli a corrispondere con generosità, a “indirizzare ogni azione” al raggiungimento del fine per il quale sono stati creati, con fermo proposito di far tutte quelle cose che possono piacere al Signore ed evitare “quelle che lo potrebbero disgustare”.[13] E poiché la salvezza di una persona “dipende ordinariamente dal tempo della gioventù”, è indispensabile iniziare da subito a servire il Signore: “Se noi cominciamo una buona vita ora che siamo giovani, buoni saremo negli anni avanzati, buona la nostra morte e principio di una eterna felicità. Al contrario se i vizi prenderanno possesso di noi in gioventù, per lo più continueranno in ogni età nostra fino alla morte. Caparra troppo funesta di una infelicissima eternità”.[14]
Don Bosco dunque invita gli adolescenti a darsi “per tempo a Dio”, a impegnarsi con gioia nel suo servizio, superando il pregiudizio che la vita cristiana sia triste e malinconica: “Non è vero, sarà malinconico colui che serve il demonio, il quale comunque si sforzi per mostrarsi contento, tuttavia avrà sempre il cuor che piange, dicendogli: tu sei infelice perché nemico d’Iddio […]. Coraggio adunque, miei cari, datevi per tempo alla virtù, e vi assicuro, che avrete sempre un cuore allegro e contento, e conoscerete quanto sia dolce servire al Signore”.[15]
La vita cristiana consiste essenzialmente nel servire il Signore in “santa allegria”; è questa una delle idee più feconde e peculiari del patrimonio spirituale e pedagogico di don Bosco: “Se farai così, quante consolazioni proverai in punto di morte! Al contrario se non attendi a servire Dio, quanti rimorsi proverai alla fine de’ tuoi dì”.[16] Chi tramanda la conversione, chi consuma i propri giorni nell’ozio o in dissipazioni inutili e dannose, nei peccati o nei vizi, rischia di non avere più l’occasione, il tempo e la grazia per tornare a Dio con pericolo di eterna dannazione.[17] La morte infatti può sorprenderlo quando meno se l’aspetta: “Guai a chi si trova in disgrazia di Dio in quel momento”.[18] Ma la misericordia divina offre al peccatore pentito il sacramento della Penitenza, mezzo sicuro per riacquistare la grazia e con essa la pace del cuore. Celebrato regolarmente e con le dovute disposizioni, il sacramento non solo diventa strumento efficace di salvezza, ma anche momento educativo privilegiato in cui il confessore, “fedele amico dell’anima”, può dirigere con sicurezza il giovane sulla via della salvezza e della santità. La Confessione si prepara con un buon esame di coscienza, chiedendo luce al Signore: “Illuminatemi colla vostra grazia, affinché io conosca ora i miei peccati come li farete a me noti quando presenterommi al vostro giudizio. Fate, o mio Dio, che li detesti con vero dolore”.[19] La regolare celebrazione del sacramento garantisce la serenità necessaria per trascorrere una vita veramente felice: “A me sembra che questo sia il mezzo più sicuro per vivere giorni felici in mezzo alle afflizioni della vita, in fine della quale vedremo anche noi con calma avvicinarsi il momento della morte”.[20]
L’amicizia con Dio riacquistata con la Confessione trova il suo vertice nella Comunione eucaristica, momento privilegiato nel quale il giovane offre tutto se stesso perché Dio possa “prendere possesso” del suo cuore e diventarne il padrone incontrastato. Nell’atto in cui si apre senza riserve all’azione santificatrice e trasfigurante della grazia, egli sperimenta la gioia ineffabile che accompagna un’esperienza spirituale genuina ed è portato a desiderare ardentemente la comunione eterna con Dio: “Se voglio qualche cosa di grande, vo a ricevere l’ostia santa in cui trovasi corpus quod pro nobis traditum est, cioè quello stesso corpo, sangue, anima e divinità, che Gesù Cristo offerse al suo eterno Padre per noi sopra la croce. Che cosa mi manca per essere felice? nulla in questo mondo: mi manca solo di poter godere, svelato in cielo colui, che ora con occhio di fede miro e adoro sull’altare”.[21]
Nonostante il forte accento emotivo che connota il sentimento religioso ottocentesco, la spiritualità proposta da don Bosco è assai concreta. Infatti egli presenta la conversione come un processo di appropriazione delle promesse battesimali, che inizia nel momento in cui il giovane, in “maniera franca e risoluta”, decide di corrispondere alla divina chiamata,[22] di staccare il cuore dall’affetto al peccato per poter amare Dio sopra ogni cosa e lasciarsi docilmente plasmare dalla grazia. La conversione si traduce quindi in un vissuto operoso e ardente, animato dalla carità, in una positiva e gioiosa tensione alla perfezione, cominciando dalle piccole cose quotidiane. Il fervore della carità ispira una mortificazione “positiva” dei sensi, centrata sul superamento di sé, sulla riforma di vita, sul puntuale compimento dei doveri, sulla cordialità e sul servizio verso il prossimo. Tale mortificazione non ha nulla di afflittivo, perché è generosa aderenza al vissuto con i suoi imprevisti e le sue difficoltà, è capacità di sopportazione nelle contrarietà quotidiane, è tenuta nelle fatiche, è sobrietà e temperanza, è fortezza d’animo. Ogni occasione dunque può diventare espressione dell’amor di Dio, un amore che spinge la persona a vivere e operare “alla sua presenza”, a far tutto e tutto sopportare per amor suo.
La carità anima in modo particolare la preghiera, poiché, attraverso le piccole pratiche, le giaculatorie, le visite e le devozioni, alimenta il desiderio di comunione affettuosa, si traduce nell’offerta incondizionata di sé, in gioioso adeguamento alla divina volontà, in desiderio dell’unione mistica e in anelito all’eterna comunione del Paradiso.
Don Bosco sintetizza la sua proposta in formule semplificatrici, ma non ne abbassa il livello e ricorda costantemente ai giovani che è necessario decidersi risolutamente: “Di quante cose adunque abbiamo bisogno per farci santi? Di una cosa sola: Bisogna volerlo. Sì; purché voi vogliate, potete essere santi: non vi manca altro che il volere”. Lo dimostrano gli esempi di santi “che hanno vissuto in condizione bassa, e tra i travagli d’una vita attiva”, ma si sono santificati, semplicemente “facendo bene tutto ciò, che dovevano fare. Essi adempievano tutti i loro doveri verso Dio, tutto soffrendo pel suo amore, a lui offerendo le loro pene, i loro travagli: questa è la grande scienza della salute eterna e della santità”.[23]
L’esperienza di Michele Magone, allievo dell’Oratorio di Valdocco, è illuminante. “Abbandonato a se stesso – scrive don Bosco – era in pericolo di cominciar a battere il tristo sentiero del male”; il Signore lo invitò a seguirlo; “ascoltò egli l’amorosa chiamata e costantemente corrispondendo alla grazia divina giunse a trarre in ammirazione quanti lo conobbero, palesandosi così quanto siano maravigliosi gli effetti della grazia di Dio verso di coloro che si adoperano per corrispondervi”.[24] Decisivo è il momento nel quale il ragazzo, dopo aver preso coscienza della propria situazione e superato, con l’aiuto dell’educatore, il profondo senso di angoscia e di colpa che lo tormentava, sente che “è tempo di romperla col demonio” e decide di “darsi a Dio” attraverso una buona confessione e un fermo proposito.[25] Don Bosco racconta le emozioni e le riflessioni dell’adolescente nella notte successiva alla confessione: riportato in grazia di Dio e rassicurato sulla sua eterna salvezza,[26] sperimenta una gioia incontenibile.
“È difficile, soleva dire, di esprimere gli affetti che occuparono il mio povero cuore in quella notte memoranda. La passai quasi intieramente senza prendere sonno. Rimaneva qualche momento assopito, e tosto l’immaginazione facevami vedere l’inferno aperto pieno di demoni. Cacciava tosto questa tetra immagine riflettendo che i miei peccati erano stati tutti perdonati, e in quel momento sembravami di vedere una grande quantità di angeli che mi facessero vedere il paradiso, e mi dicessero: – Vedi che grande felicità ti è riserbata, se sarai costante nei tuoi proponimenti!
Giunto poi alla metà del tempo stabilito per il riposo, io era così pieno di contentezza, di commozione e di affetti diversi, che per dare qualche sfogo all’animo mio mi alzai, mi posi ginocchioni, e dissi più volte queste parole: Oh quanto mai sono disgraziati quelli che cadono in peccato! ma quanto più sono infelici coloro che vivono nel peccato. Io credo che se costoro gustassero anche un solo momento la grande consolazione che provasi da chi si trova in grazia di Dio, tutti andrebbero a confessarsi per placare l’ira di Dio, dare tregua ai rimorsi della coscienza, e godere della pace del cuore. O peccato, peccato! che terribile flagello sei tu a coloro che ti lasciano entrare nel loro cuore! Mio Dio, per l’avvenire non voglio mai più offendervi; anzi vi voglio amare con tutte le forze dell’anima mia; che se per mia disgrazia cadessi anche in un piccolo peccato andrò tosto a confessarmi”.[27]
Troviamo qui le chiavi interpretative dell’orizzonte di senso in cui don Bosco colloca la funzione pedagogica e spirituale dell’esercizio della buona morte.
[1] Bosco, Il giovane provveduto, 140.
[2] Troviamo la stessa formula, con varianti minime, in un opuscoletto anonimo intitolato Mezzi da praticarsi e risoluzioni da farsi dopo una buona confessione per mantenersi nella grazia di Dio riacquistata, Vigevano, s.e., 1842, 33-36. Cf. anche Il cristiano in chiesa, ovvero affettuose orazioni per la Messa, per la Confessione e Comunione e per l’adorazione del Santissimo Sacramento. Operetta spirituale del P. Fulgenzio M. Riccardi di Torino, Min. Oss., Torino, G.B. Paravia 1845, dove l’attribuzione della sequenza è, nella dicitura, simile a quella i don Bosco: “Litanie per ottenere una buona morte composte da una Damigella nata tra i Protestanti, convertitasi alla Religione Cattolica all’età di quindici anni, e morta di diciotto in istima universale di santità” (ibid., 165).
[3] Pietro Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. Vol. II: Mentalità religiosa e spiritualità, Roma, LAS, 1981, 340. Cf. anche Michel Bazart, Don Bosco et l’exercice de la bonne mort, in «Chahiers Salésiens» N. 4, Avril 1981, 7-24.
[4] Ad esempio, la si trova, con qualche rielaborazione stilistica e piccole amplificazioni, sotto il titolo di “Gemiti e suppliche per la buona morte”, in Giuseppe Riva, Manuale di Filotea. Ventunesima edizione nuovamente riveduta ed aumentata, Milano, Serafino Majocchi, 1874, 926-927.
[5] Bosco, Il giovane provveduto, 138-142.
[6] Si veda per esempio la prima considerazione “Ritratto d’un uomo da poco tempo morto”, in Alfonso Maria de Liguori, Opere ascetiche, vol. 8, Apparecchio alla morte, Torino, Giacinto Marietti, 1825, 10-19.
[7] Angelo Antonio Scotti, Osservazioni sulle false dottrine e sulle funeste conseguenze dell’opera del Lauvergne intitolata “De l’agonie et de la mort dans toutes les classes de la societé”. Dissertazione letta nell’Accademia di Religione Cattolica in Roma il dì 4 luglio 1844, Roma, Tipografia delle Belle Arti, 1844, 3. Scotti polemizza con l’autore francese, medico e scienziato, che ritiene falsa l’affermazione che solo i veri cattolici muoiono serenamente: anche gli atei o gli adepti di altre religioni o addirittura gli individui immorali e pessimi possono morire serenamente, mentre capita non di rado che uomini santi, persone di grande virtù e asceti, specialmente tra i cattolici, subiscano agonie strazianti e disperate, poiché tutto dipende dal tipo di malattia, dalla lucidità cerebrale, dallo stato di debilitazione fisiologica o psichica e dalle angosce indotte dal fanatismo religioso, cf. Hubert Lauvergne, De l’agonie et de la mort dans toutes les classes de la societé sour le rapport humanitaire, physiologique et religieux, 2 vol., Paris, Librairie de J.-B. Baillière et C. Gosselin, 1842.
[8] Giovanni Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1859, 116.
[9] Scotti, Osservazioni sulle false dottrine, 14-15.
[10] Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. II, 341.
[11] Bosco, Il giovane provveduto, 7.
[12] Cf. ibid., 10.
[13] Ibid., 10-11.
[14] Ibid., 6.
[15] Ibid., 13.
[16] Ibid., 32.
[17] Cf. ibid., 32-34.
[18] Ibid., 38.
[19] Ibid., 93.
[20] Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 136.
[21] Ibid., 69.
[22] Giovanni Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1861, 4-5.
[23] Giovanni Bosco, Vita di santa Zita serva e di sant’Isidoro contadino. Torino, P. De-Agostini, 1853, 6-7
[24] Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 5.
[25] Ibid., 20-21.
[26] “Terminata [la Confessione] prima di partire dal confessore gli disse: «Vi sembra che i miei peccati mi siano tutti perdonati? se io morissi in questa notte sarei salvo?». – Va’ pure tranquillo, gli fu risposto. Il Signore che nella sua grande misericordia ti aspettò finora perché avessi tempo a fare una buona confessione, ti ha certamente perdonati tutti i peccati; e se nei suoi adorabili decreti egli volesse chiamarti in questa notte all’eternità tu sarai salvo” (ibid., 21).
[27] Ibid., 21-22.