Educare le facoltà del nostro spirito con san Francesco di Sales
San Francesco di Sales presenta lo spirito come la parte più elevata dell’anima, retta da intelletto, memoria e volontà. Cuore della sua pedagogia è l’autorità della ragione, “divina fiaccola” che rende l’uomo realmente umano e deve guidare, illuminare e disciplinare passioni, immaginazione e sensi. Educare lo spirito significa quindi coltivare l’intelletto con studio, meditazione e contemplazione, esercitare la memoria come deposito delle grazie ricevute, e irrobustire la volontà perché scelga costantemente il bene. Da tale armonia sgorgano le virtù cardinali – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza – che formano persone libere, equilibrate e capaci di autentica carità.
Lo spirito è considerato da Francesco di Sales come la parte superiore dell’anima. Le sue facoltà sono l’intelletto, la memoria e la volontà. L’immaginazione potrebbe farne parte nella misura in cui la ragione e la volontà intervengono nel suo funzionamento. La volontà, da parte sua, è la facoltà maestra cui conviene riservare un trattamento particolare. Lo spirito fa sì che l’uomo divenga, secondo la definizione classica, un «animale razionale». «Siamo uomini soltanto mediante la ragione», scrive Francesco di Sales. Dopo «le grazie corporali», ci sono «i doni dello spirito», che dovrebbero essere oggetto delle nostre riflessioni e della nostra riconoscenza. Fra essi l’autore della Filotea distingue i doni ricevuti dalla natura e quelli acquistati con l’educazione:
Considerate i doni dello spirito: quanta gente c’è al mondo ebete, pazza furiosa, mentecatta. Perché non vi trovate fra loro? Dio vi ha favorita. Quanti sono stati educati rozzamente e nella più estrema ignoranza: ma voi, la Provvidenza divina vi ha fatto allevare in un modo civile e onorato.
La ragione, “divina fiaccola”
In un Esercizio del sonno o riposo spirituale, composto a Padova quando aveva ventitré anni, Francesco si proponeva di meditare un argomento che stupisce:
Mi fermerò ad ammirare la bellezza della ragione che Dio ha donato all’uomo, affinché illuminato e istruito dal suo meraviglioso splendore, odiasse il vizio e amasse la virtù. Oh! Seguiamo la splendente luce di questa divina fiaccola, perché ci è donata in uso per vedere dove dobbiamo mettere i piedi! Ah! Se ci lasciamo condurre dai suoi dettami, raramente inciamperemo, difficilmente ci faremo male.
«La ragione naturale è un buon albero che Dio ha piantato in noi, i frutti che ne provengono possono essere soltanto buoni», afferma l’autore del Teotimo; è vero che è «gravemente ferita e quasi morta a causa del peccato», ma il suo esercizio non è fondamentalmente impedito.
Nel regno interiore dell’uomo, «la ragione deve essere la regina, alla quale tutte le facoltà del nostro spirito, tutti i nostri sensi e lo stesso corpo devono rimanere assolutamente sottomessi». È la ragione che distingue l’uomo dall’animale, per cui bisogna guardarsi bene dall’imitare «le bertucce e le scimmie che sono sempre immusonite, tristi e lamentose quando manca la luna; poi, al contrario, alla luna nuova, saltano, danzano, e fanno tutte le smorfie possibili». È necessario far regnare «l’autorità della ragione», ribadisce Francesco di Sales.
Fra la parte superiore dello spirito, che deve regnare, e la parte inferiore del nostro essere, designata a volte da Francesco di Sales col termine biblico di «carne», la lotta talvolta diventa aspra. Ogni fronte ha i suoi alleati. Lo spirito, «fortezza dell’anima», è accompagnato «da tre soldati: l’intelletto, la memoria e la volontà». Attenti dunque alla «carne» che complotta e cerca alleati sul posto:
La carne usa ora l’intelletto, ora la volontà, ora l’immaginazione, le quali associandosi contro la ragione, le lasciano libero il campo, creando divisione e facendo un cattivo servizio alla ragione. […] La carne alletta la volontà a volte coi piaceri, a volte con le ricchezze; ora sollecita l’immaginazione a campare pretese, ora suscita nell’intelletto una grande curiosità, il tutto col pretesto del bene.
In questa lotta, anche quando tutte le passioni dell’anima sembrano sconvolte, niente è perduto fin tanto che lo spirito resiste: «Se questi soldati fossero fedeli, lo spirito non avrebbe alcun timore e non darebbe alcun peso ai propri nemici: come soldati che, disponendo di sufficienti munizioni, resistono nel bastione di una fortezza imprendibile, nonostante che i nemici si trovino nei sobborghi o addirittura abbiano già preso anche la città; è capitato alla cittadella di Nizza, davanti alla quale la forza di tre grandi principi non l’ha spuntata contro la resistenza dei difensori». La causa di tutte queste interiori lacerazioni è l’amore proprio. In effetti, «i nostri ragionamenti ordinariamente sono pieni di motivazioni, opinioni e considerazioni suggerite dall’amor proprio, e ciò causa grandi conflitti nell’anima».
In ambito educativo, è importante far sentire la superiorità dello spirito. «Qui sta il principio di un’educazione umana – dice il padre Lajeunie –: mostrare al fanciullo, appena la sua ragione si sveglia, ciò che è bello e buono, e distoglierlo da ciò che è cattivo; creare in questo modo nel suo cuore l’abitudine di controllare i suoi riflessi istintivi, invece di seguirli servilmente; è così, infatti, che si forma questo processo di sensualizzazione che lo rende schiavo dei suoi desideri spontanei. Al momento di scelte decisive, tale abitudine di cedere sempre, senza controllarsi, alle pulsioni istintive può rivelarsi catastrofica».
L’intelletto, “occhio dell’anima”
L’intelletto, facoltà tipicamente umana e razionale, la quale consente di conoscere e comprendere, sovente è paragonato alla vista. Si afferma per esempio: «Io vedo», per dire: «Io comprendo». Per Francesco di Sales, l’intelletto è “l’occhio dell’anima”; di qui la sua espressione «l’occhio del vostro intelletto». L’incredibile attività di cui è capace, lo rende simile a «un operaio, il quale, con le centinaia di migliaia di occhi e di mani, come un altro Argo, compie più opere di tutti i lavoratori del mondo, perché non c’è niente nel mondo che non sia in grado di rappresentare».
Come funziona l’intelletto umano? Francesco di Sales ne ha analizzato con precisione le quattro operazioni di cui è capace: il semplice pensiero, lo studio, la meditazione e la contemplazione. Il semplice pensiero si esercita su una grande diversità di cose, senza alcun fine, «come fanno le mosche che si posano sui fiori senza volerne estrarre alcun succo, ma soltanto perché li incontrano». Quando l’intelletto passa da un pensiero all’altro, i pensieri che così lo stipano sono d’ordinario «inutili e dannosi». Lo studio, al contrario, mira a considerare le cose «per conoscerle, per comprenderle e per parlarne bene, con lo scopo di «riempirne la memoria», come fanno li maggiolini che «si posano sulle rose per nessun altro fine se non per saziarsene e riempirsene il ventre».
Francesco di Sales poteva fermarsi qui, ma conosceva e raccomandava altre due forme più elevate. Mentre lo studio mira a aumentare le conoscenze, la meditazione ha come scopo quello di «muovere gli affetti e, in particolare, l’amore»: «Fissiamo il nostro intelletto sul mistero dal quale speriamo di poter attingere buoni affetti», come la colomba che “tuba trattenendo il respiro e, mediante il brontolio che produce in gola senza lasciarne uscire il respiro, produce il suo tipico canto”.
L’attività suprema dell’intelletto è la contemplazione, la quale consiste nel gioire del bene conosciuto tramite la meditazione e amato mediante tale conoscenza; questa volta assomigliamo agli uccellini che si trastullano nella gabbia soltanto per “far piacere al maestro». Con la contemplazione lo spirito umano giunge al suo vertice; l’autore del Teotimo afferma che la ragione «vivifica infine l’intelletto con la contemplazione”.
Ritorniamo allo studio, l’attività intellettuale che ci interessa più da vicino. “C’è un vecchio assioma dei filosofi, secondo cui ogni uomo desidera conoscere”. Riprendendo da parte sua questa affermazione di Aristotele, come pure l’esempio di Platone, Francesco di Sales intende dimostrare che ciò costituisce un grande privilegio. Ciò che l’uomo vuol conoscere è la verità. La verità è più bella di quella «famosa Elena, per la cui bellezza morirono tanti Greci e Troiani». Lo spirito è fatto per la ricerca della verità: «La verità è l’oggetto del nostro intelletto, il quale, di conseguenza, scoprendo e conoscendo la verità delle cose, si sente pienamente appagato e contento». Quando lo spirito trova qualcosa di nuovo, ne prova una gioia intensa, e quando si incomincia a trovare qualche cosa di bello, si è spinti a continuare la ricerca, «come coloro che hanno trovato una miniera d’oro e si spingono sempre più avanti per trovarne ancora di più, di questo prezioso metallo». Lo stupore che produce la scoperta è un potente stimolo; «l’ammirazione, infatti, ha dato l’origine alla filosofia e all’attenta ricerca delle cose naturali». Essendo Dio la verità suprema, la conoscenza di Dio è la scienza suprema che riempie il nostro spirito. È lui che ci «ha donato l’intelletto per conoscerlo»; fuori di lui ci sono soltanto «pensieri vani e riflessioni inutili!»
Coltivare la propria intelligenza
Ciò che caratterizza l’uomo è il grande desiderio di conoscere. È stato questo desiderio «a indurre il grande Platone a uscire da Atene e correre tanto», e «a indurre questi antichi filosofi a rinunciare alle loro comodità corporali». Certuni giungono perfino a digiunare diligentemente «per poter studiare meglio». Lo studio, infatti, produce un piacere intellettuale, superiore ai piaceri sensuali e difficile da fermare: «L’amore intellettuale, trovando nell’unione con il suo oggetto una contentezza insperata, ne perfeziona la conoscenza, continuando così ad unirvisi, e unendosi sempre più, non smette dal continuare a farlo».
Si tratta di «illuminare bene l’intelletto», sforzandosi di «purgarlo» dalle tenebre dell’«ignoranza». Egli denuncia «l’ottusità e l’indolenza di spirito, che non vuole sapere ciò che è necessario» e insiste sul valore dello studio e dell’apprendimento: «Studiate sempre di più, con diligenza e umiltà», scriveva a uno studente. Ma non basta «purgare» l’intelletto dall’ignoranza, occorre inoltre «abbellirlo e ornarlo», «tappezzarlo di considerazioni». Per conoscere perfettamente una cosa, è necessario imparare bene, dedicare del tempo ad «assoggettare» l’intelletto, cioè a fissarlo su una cosa, prima di passare ad un’altra.
Il giovane Francesco di Sales applicava la sua intelligenza non soltanto agli studi e a conoscenze intellettuali, ma anche a certi soggetti essenziali per la vita dell’uomo sulla terra, e, in particolare, alla «considerazione della vanità della grandezza, delle ricchezze, degli onori, delle comodità e dei piaceri voluttuosi di questo mondo»; alla «considerazione della nefandezza, abiezione e deplorabile miseria, presenti nel vizio e nel peccato», e alla «conoscenza dell’eccellenza della virtù».
Lo spirito umano è sovente distratto, dimentica, si accontenta d’una conoscenza vaga o vana. Mediante la meditazione, non soltanto delle verità eterne, ma anche dei fenomeni e degli avvenimenti del mondo, è in grado di raggiungere una visione più realista e più profonda della realtà. Per questo motivo, nelle Meditazioni proposte dall’autore a Filotea, vi è dedicata una prima parte intitolata Considerazioni.
Considerare significa applicare lo spirito a un oggetto preciso, esaminarne con attenzione i suoi diversi aspetti. Francesco di Sales invita Filotea a «pensare», a «vedere», a esaminare i differenti «punti», alcuni dei quali meritano di essere considerati «a parte». Esorta a vedere le cose in generale e a discendere poi ai casi particolari. Vuole che si esaminino i principi, le cause e le conseguenze di una determinata verità, di una data situazione, come pure le circostanze che l’accompagnano. Occorre anche saper «pesare» certe parole o sentenze, la cui importanza rischia di sfuggirci, considerarle una ad una, confrontarle l’una con l’altra.
Come in ogni cosa, così nel desiderio di conoscere ci possono essere eccessi e deformazioni. Attenti alla vanità di falsi sapienti: certuni, infatti, «per il poco di scienza che hanno, vogliono essere onorati e rispettati da tutti, come se ognuno dovesse andare alla loro scuola e averli per maestri: perciò li si chiama pedanti». Ora, «la scienza ci disonora quando ci gonfia e degenera in pedanteria». Che ridicolaggine voler istruire Minerva, Minervam docere, la dea della saggezza! «La peste della scienza è la presunzione, che gonfia gli spiriti e li rende idropici, come sono d’ordinario i sapienti del mondo».
Quando si tratta di problemi che ci superano e che rientrano nell’ambito dei misteri della fede, è necessario «purificarli da ogni curiosità», bisogna «tenerli ben chiusi e coperti di fronte a tali vane e sciocche questioni e curiosità». È la «purità intellettuale», la «seconda modestia» o l’«interiore modestia». Infine si deve sapere che l’intelletto può sbagliarsi e che esiste il «peccato dell’intelletto», come quello che Francesco di Sales rimprovera alla signora di Chantal, la quale aveva commesso un errore riponendo un’esagerata stima nel suo direttore.
La memoria e i suoi «magazzini»
Come l’intelletto, così la memoria è una facoltà dello spirito che suscita ammirazione. Francesco di Sales la paragona a un magazzino «che vale più di quelli di Anversa o di Venezia». Non si dice forse «immagazzinare» nella memoria? La memoria è un soldato la cui fedeltà ci è assai utile. È un dono di Dio, dichiara l’autore dell’Introduzione alla vita devota: Dio ve l’ha donata «perché vi ricordiate di lui», dice a Filotea, invitandola a fuggire «i ricordi detestabili e frivoli».
Questa facoltà dello spirito umano ha bisogno di essere allenata. Quando era studente a Padova, il giovane Francesco esercitava la sua memoria non soltanto negli studi, ma anche nella vita spirituale, nella quale la memoria dei benefici ricevuti è un elemento fondamentale:
Prima di ogni cosa, mi dedicherò a rinfrescare la mia memoria con tutti i buoni moti, desideri, affetti, propositi, progetti, sentimenti e dolcezze che in passato la divina Maestà m’ha ispirato e fatto sperimentare, considerando i suoi santi misteri, la bellezza della virtù, la nobiltà del suo servizio e un’infinità di benefici che mi ha liberamente elargito; metterò pure ordine nei miei ricordi circa gli obblighi che ho verso di lei per il fatto che, per la sua santa grazia, a volte ha debilitato i miei sensi inviandomi certe malattie e infermità, dalle quali ho tratto grande profitto.
Nelle difficoltà e nelle paure è indispensabile servirsene «per ricordarsi delle promesse» e per «restare saldi confidando che tutto perirà piuttosto che le promesse vengano meno». Tuttavia, la memoria del passato non è sempre buona, perché può ingenerare tristezza, come capitò a un discepolo di san Bernardo, che fu assalito da una brutta tentazione quando incominciò «a ricordare gli amici del mondo, i parenti, i beni che aveva lasciato». In certe circostanze eccezionali della vita spirituale «è necessario purificarla dal ricordo di cose caduche e da affari mondani e dimenticare per un certo tempo le cose materiali e temporali, benché buone e utili». In campo morale, per esercitare la virtù, la persona che si è sentita offesa prenderà una misura radicale: «Mi ricordo troppo delle frecciate e ingiurie, d’ora in poi perderò la memoria».
«Dobbiamo avere uno spirito giusto e ragionevole»
Le capacità dello spirito umano, in particolare dell’intelletto e della memoria, non sono destinate soltanto a gloriose imprese intellettuali, ma anche e soprattutto alla condotta della vita. Cercare di conoscere l’uomo, di comprendere la vita e definire le norme riguardanti i comportamenti conformi alla ragione, questi dovrebbero essere i compiti fondamentali dello spirito umano e della sua educazione. La parte centrale della Filotea, che tratta dell’«esercizio delle virtù», contiene, verso la fine, un capitolo che riassume in certo modo l’insegnamento di Francesco di Sales sulle virtù: «Dobbiamo avere uno spirito giusto e ragionevole».
Con finezza e un pizzico di umore, l’autore denuncia numerose condotte bizzarre, folli o semplicemente ingiuste: «Accusiamo il prossimo per poco, e scusiamo noi stessi per molto di più»; «vogliamo vendere con un prezzo alto e comperare a buon mercato»; «ciò che facciamo per gli altri ci sembra sempre molto, e ciò che fanno gli altri per noi è niente»; «abbiamo un cuore dolce, grazioso e cortese verso di noi, e un cuore duro, severo e rigoroso verso il prossimo»; «abbiamo due pesi: l’uno per pesare le nostre comodità con il maggior vantaggio possibile per noi, l’altro per pesare quelle del prossimo con il maggior svantaggio che si può». Per giudicare bene, consiglia a Filotea, è necessario sempre mettersi nei panni del prossimo: «Fatevi venditrice nel comperare e compratrice nel vendere». Non si perde nulla a vivere da persone «generose, nobili, cortesi, con un cuore regale, costante e ragionevole».
La ragione sta alla base dell’edificio dell’educazione. Certi genitori non hanno un atteggiamento mentale giusto; infatti, «ci sono ragazzi virtuosi che padri e madri non riescono quasi a sopportare perché hanno questo o quel difetto nel corpo; ce ne sono invece di viziosi continuamente coccolati, perché hanno questa o quella bella dote fisica». Ci sono educatori e responsabili che si lasciano andare a preferenze. «Tenete la bilancia ben diritta fra le vostre figlie», raccomandava a una superiora delle visitandine, affinché «i doni naturali non vi facciano distribuire ingiustamente gli affetti e i favori». E aggiungeva: «La bellezza, la buona grazia e la parola garbata conferiscono spesso una grande forza d’attrattiva alle persone che vivono secondo le loro inclinazioni naturali; la carità ha come oggetto la vera virtù e la bellezza del cuore, e si estende a tutti senza particolarismi».
Ma è soprattutto la gioventù quella che corre i rischi maggiori, perché se «l’amor proprio ci allontana solitamente dalla ragione», ciò avviene forse ancor di più nei giovani tentati dalla vanità e dall’ambizione. La ragione di un giovane rischia di perdersi soprattutto quando si lascia «prendere da innamoramenti». Attenzione dunque, scrive il vescovo a un giovane, «a non permettere ai vostri affetti di prevenire il giudizio e la ragione nella scelta dei soggetti da amare; poiché, una volta che si è messo in corsa, l’affetto trascina il giudizio, come si trascinerebbe uno schiavo, a scelte molto deplorevoli, di cui potrebbe pentirsi assai presto». Spiegava pure alle visitandine che «i nostri pensieri sono solitamente pieni di ragioni, opinioni e considerazioni suggerite dall’amor proprio, che causa grandi conflitti nell’anima».
La ragione, fonte delle quattro virtù cardinali
La ragione assomiglia al fiume del paradiso, «che Dio fa scorrere per irrigare tutto l’uomo in tutte le sue facoltà e attività»; esso si divide in quattro bracci corrispondenti alle quattro virtù che la tradizione filosofica chiama virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.
La prudenza «inclina il nostro intelletto a discernere veramente il male da evitare e il bene da compiere». Essa consiste nel «discernere quali sono i mezzi più appropriati per raggiungere il bene e la virtù». Attenzione alle passioni che rischiano di deformare il nostro giudizio e di provocare la rovina della prudenza! La prudenza non si oppone alla semplicità: saremo, congiuntamente, «prudenti come serpenti per non essere ingannati; semplici come colombe per non ingannare nessuno».
La giustizia consiste nel «rendere a Dio, al prossimo e a sé stessi ciò che si deve». Francesco di Sales inizia con la giustizia verso Dio, connessa con la virtù della religione, «mediante la quale rendiamo a Dio il rispetto, l’onore, l’omaggio e la sottomissione a lui dovuti come nostro sovrano Signore e primo principio». La giustizia verso i genitori comporta il dovere della pietà, la quale «si estende a tutti gli uffici che si possono legittimamente rendere loro, sia in onore, sia in servizio».
La virtù della fortezza aiuta a «superare le difficoltà che si incontrano nel compiere il bene e nel respingere il male». È ben necessaria, perché l’appetito sensitivo è «davvero un soggetto ribelle, sedizioso, turbolento». Quando la ragione domina le passioni, l’ira lascia il posto alla dolcezza, grande alleata della ragione. La fortezza è accompagnata spesso dalla magnanimità, «una virtù che ci spinge e inclina a compiere azioni di grande rilievo».
Infine la temperanza è indispensabile «per reprimere le inclinazioni disordinate della sensualità», per «governare l’appetito dell’avidità» e «frenare le passioni connesse». In effetti, se l’anima si appassiona troppo ad un piacere e a una gioia sensibile, si degrada rendendosi incapace di gioie più elevate.
In conclusione, le quattro virtù cardinali sono come le manifestazioni di questa luce naturale che ci fornisce la ragione. Praticando queste virtù, la ragione esercita «la sua superiorità e l’autorità che ha di regolare gli appetiti sensuali».