La svolta nella vita di san Francesco di Sales (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

Inizi di una nuova tappa
            A partire da questo momento tutto correrà veloce. Francesco diventava un nuovo uomo: «Lui, prima perplesso, inquieto, malinconico – così A. Ravier –, ora prende delle decisioni senza indugio, non tira più per le lunghe le sue imprese, vi si butta a capofitto».
            Subito, il 10 maggio, veste l’abito ecclesiastico. Il giorno dopo si presenta al vicario della diocesi. Il 12 maggio prende possesso del suo incarico nella cattedrale d’Annecy e fa visita al vescovo, mons. Claude de Granier. Il 13 maggio presiede per la prima volta la recita dell’ufficio divino in cattedrale. Poi sistema i propri affari temporali: abbandona il titolo di signore di Villaroget e i diritti di primogenito; rinuncia alla magistratura cui il padre l’aveva destinato. Dal 18 maggio al 7 giugno, si ritira col suo amico e confessore, Amé Bouvard, al castello di Sales per prepararsi agli ordini. Per un’ultima volta è assalito da dubbi e tentazioni; ne esce vittorioso, convinto che Dio gli si era manifestato «molto misericordioso» durante tali esercizi spirituali. Prepara quindi l’esame canonico in vista dell’ammissione agli ordini.
            Invitato per la prima volta dal vescovo a predicare il giorno di Pentecoste, che quell’anno cadeva il 6 giugno, preparò molto accuratamente la sua prima predica per una festa nella quale «non soltanto gli anziani ma anche i giovani dovrebbero predicare»; ma l’imprevisto arrivo di un altro predicatore gli impedì di pronunciarla. Il 9 giugno, mons. de Granier gli conferisce i quattro ordini minori e due giorni dopo lo promuove a suddiacono.
            Incomincia quindi per lui un’intensa attività pastorale. Il 24 giugno, festa di san Giovanni Battista, predicò per la prima volta in pubblico con grande coraggio, ma non senza aver provato prima una certa tremarella, che lo costrinse a stendersi per qualche istante sul suo letto, prima di salire sul pulpito. Da quel momento in poi, le prediche andranno moltiplicandosi.
            Un’iniziativa ardita per un suddiacono fu la fondazione ad Annecy di un’associazione destinata a riunire non solamente degli ecclesiastici, ma soprattutto dei laici, uomini e donne, sotto il titolo di «Confraternita dei penitenti della Santa Croce». Egli stesso ne redasse gli statuti, che il vescovo confermò e approvò. Costituita il 1° settembre 1593, iniziò le sue attività il giorno 14 dello stesso mese. Gli appartenenti furono, fin dall’inizio, numerosi e, tra i primi iscritti, Francesco ebbe la gioia di annoverare suo padre e qualche tempo dopo il fratello Louis. Gli statuti prevedevano non soltanto celebrazioni, preghiere e processioni, ma anche visite ai malati e ai prigionieri. All’inizio non mancò qualche malcontento specialmente tra i religiosi, ma ci si rese ben presto conto che la testimonianza degli associati era convincente.
Francesco venne ordinato diacono il 18 settembre e prete tre mesi più tardi, il 18 dicembre 1593. Al termine di tre giorni di preparazione spirituale, celebrò la sua prima messa il 21 dicembre e predicò a Natale. Qualche tempo dopo ebbe la gioia di battezzare la sorellina Jeanne, ultima nata della signora di Boisy. Il suo insediamento ufficiale nella cattedrale avvenne sul finire del mese di dicembre.
            Ebbe un grande risalto la sua «arringa» in latino, che impressionò il vescovo e gli altri membri del capitolo, tanto più profondamente in quanto il tema affrontato era scottante: ricuperare l’antica sede della diocesi, che era Ginevra. Tutti si trovarono d’accordo: occorreva riconquistare Ginevra, la città di Calvino che aveva messo fuori legge il cattolicesimo. Si! Ma come? Con quali armi? E prima di tutto qual era la causa di tale deplorevole situazione? La risposta del prevosto non dovette piacere a tutti: «Sono gli esempi dei preti perversi, le azioni, le parole, in sostanza, l’iniquità di tutti, ma in particolare degli ecclesiastici». Seguendo l’esempio dei profeti, Francesco di Sales non analizzava le cause politiche, sociali o ideologiche della riforma protestante; non predicava più la guerra contro gli eretici, ma la conversione di tutti. La fine dell’esilio non si otterrà se non con la penitenza e la preghiera, in una parola, con la carità:

È per mezzo della carità che dobbiamo smantellare le mura di Ginevra, per mezzo della carità invaderla, per mezzo della carità recuperarla. […] Non vi propongo né il ferro, né quella polvere, il cui odore e sapore ricordano la fornace infernale […]. È con la fame e con la sete patite da noi e non dai nostri avversari che dobbiamo sconfiggere il nemico.

            Charles-Auguste afferma che, al termine di questo discorso, Francesco «discese dal suo ambone tra gli applausi di tutta l’assemblea», ma si può supporre che certi canonici rimasero irritati dall’arringa di questo giovane prevosto.
            Questi avrebbe potuto contentarsi di «far regnare la disciplina dei canonici e l’esatta osservanza degli statuti», ed invece si lanciò in un lavoro pastorale sempre più intenso: confessioni, predicazioni ad Annecy e nei paesi, visite ai malati e ai prigionieri. In caso di bisogno, impiegava le sue conoscenze giuridiche a beneficio degli altri, appianava contese e discuteva con gli ugonotti. Dal gennaio 1594 fino all’inizio della sua missione nel Chiablese nel mese di settembre, la sua attività di predicatore dovette conoscere un inizio promettente. Come lo dimostrano le numerose citazioni, le sue fonti sono la Bibbia, i Padri e i teologi, ed anche autori pagani quali Aristotele, Plinio e Virgilio, di cui non temeva di citare il celebre Jovis omnia plena. Suo padre non era abituato a uno zelo cosi travolgente e a predicazioni tanto frequenti. Un giorno – racconterà Francesco all’amico Jean-Pierre Camus – mi prese in disparte e mi disse:

Prevosto, tu predichi troppo spesso. Odo persino nei giorni feriali suonare la campana per la predica e mi dicono: È il prevosto! il prevosto! Ai miei tempi non era così, le prediche erano assai più rare; però, che prediche! Dio la sa, erano dotte, ben studiate; erano ricche di racconti meravigliosi, una sola predica conteneva più citazioni in latino e in greco di dieci delle tue: tutti restavano contenti ed edificati, si correva in massa ad ascoltarle; avreste sentito dire che si andava a raccogliere la manna. Ora tu rendi questa pratica così comune, che non gli facciamo più caso e non si ha più tanta stima di te.

            Francesco non era di questo avviso: per lui, «biasimare un lavoratore o un vignaiolo perché coltiva troppo bene la sua terra, voleva dire fargli dei veri elogi».

Gli inizi dell’amicizia con Antoine Favre
            Gli umanisti avevano il gusto dell’amicizia, spazio propizio per lo scambio epistolare nel quale uno poteva manifestare il proprio affetto con espressioni appropriate, attinte all’antichità classica. Francesco di Sales aveva sicuramente letto il De amicitia di Cicerone. L’espressione con cui Orazio chiamava Virgilio «la metà della mia anima» (Et serves animae dimidium meae) gli ritornava alla memoria.
            Forse ricordava anche l’amicizia che univa Montaigne e Étienne de La Boétie: «Noi eravamo in tutto la metà l’uno dell’altro», scriveva l’autore dei Saggi, «essendo un’anima sola in due corpi, secondo la felice definizione di Aristotele»; «se mi si chiede di spiegare perché l’amavo, mi accorgo che ciò non lo si può esprimere se non rispondendo: Perché era lui e perché ero io». Un vero amico è un tesoro, afferma il proverbio, e Francesco di Sales ha potuto sperimentare che esso rispondeva a verità nel momento in cui la sua vita prendeva un orientamento definitivo, grazie all’amicizia con Antoine Favre.
            Possediamo la prima lettera che il senatore Favre gli indirizzò il 30 luglio 1593 da Chambéry. Con allusioni al «divino Platone» e in un latino elegante e ricercato, gli manifestava il suo desiderio: quello, scriveva, «non solamente di amarvi e di onorarvi, ma anche di contrarre un legame vincolante per sempre». Favre aveva allora trentacinque anni, era senatore da cinque anni, e Francesco aveva dieci anni di meno. Si conoscevano già per sentito dire, e Francesco aveva anche tentato di entrare in contatto con lui. Ricevuta detta lettera, il giovane prevosto di Sales esultò di gioia:

Ho ricevuto, uomo illustrissimo e Senatore integerrimo, la vostra lettera, pegno preziosissimo della vostra benevolenza verso di me, la quale, anche perché non era attesa, m’ha colmato di tanta gioia e ammirazione, che non riesco a esprimere i miei sentimenti.

            Al di là della palese retorica, favorita dall’uso del latino, ciò costituì l’inizio di un’amicizia che durò fino alla morte. Alla «provocazione» dell’«illustrissimo e integerrimo senatore» che assomigliava a una sfida a duello, Francesco rispose con espressioni adatte al caso: se l’amico è sceso per primo nella pacifica arena dell’amicizia, si vedrà chi vi resterà per ultimo, perché io – diceva Francesco – sono «un combattente che, per indole, è ardentissimo in questo genere di lotte». Questo primo scambio epistolare farà nascere tra i due il desiderio di incontrarsi: in effetti, scrive, «che l’ammirazione susciti il desiderio di conoscere, è una massima che s’apprende fin dalle prime pagine della filosofia». Le lettere si susseguiranno rapidamente.
            Alla fine di ottobre del 1593 Francesco gli risponde per ringraziarlo di avergli procurato un’altra amicizia, quella di François Girard. Ha letto e riletto le lettere di Favre «più di dieci volte». Il 30 novembre seguente, Favre insiste perché accetti la dignità di senatore, ma su questo terreno non sarà seguito. All’inizio di dicembre Francesco gli annuncia che la sua «carissima madre» ha dato alla luce la sua tredicesima creatura. Verso la fine di dicembre lo rende partecipe della sua prossima ordinazione sacerdotale, «insigne onore e bene eccellente», che farà di lui un altro uomo, nonostante i sentimenti di timore che prova dentro di sé. La vigilia di Natale del 1593 ebbe luogo un incontro ad Annecy, dove qualche giorno dopo Favre assistette probabilmente all’insediamento del giovane prevosto. All’inizio del 1594, la febbre ha costretto Francesco a mettersi a letto, e l’amico l’ha confortato a tal punto da fargli dire che la tua febbre è divenuta la «nostra» febbre. Nel marzo del 1594 inizia a chiamarlo «fratello», mentre la sposa di Favre sarà per Francesco la «mia dolcissima sorella».
            Tale amicizia si rivela feconda e fruttuosa, perché il 29 maggio 1594 Favre costituì, a sua volta, la confraternita della Santa Croce a Chambéry; e il martedì di Pentecoste i due amici organizzarono un grande pellegrinaggio comune a Aix. Nel mese di giugno Favre con la sua sposa, chiamata da Francesco «mia dolcissima sorella, vostra sposa illustrissima e amatissima», e con i loro «nobili figli» era atteso con impazienza ad Annecy. Antoine Favre aveva allora cinque figli e una figlia. In agosto scriverà una lettera ai figli di Favre per ringraziarli del loro scritto, per incoraggiarli a seguire gli esempi del loro padre e per pregarli di trasmettere alla loro madre i suoi sentimenti di «pietà filiale». Il 2 settembre 1594, in un biglietto scritto in fretta, Favre gli annunciava una prossima visita «il più presto possibile» e terminava con ripetuti saluti non soltanto all’«amato fratello», ma anche «a quelli di Sales e a tutti i salesiani».
            C’è stato chi non si è trattenuto dal criticare queste lettere piuttosto magniloquenti, piene di complimenti esagerati e di periodi latini troppo ricercati. Come il suo corrispondente, il prevosto di Sales, inanellando il suo latino con riferimenti alla Bibbia e ai Padri della Chiesa, si impegnava soprattutto a citare autori dell’antichità classica. Il modello ciceroniano e l’arte epistolare non gli sfuggono mai, e, d’altronde l’amico Favre qualifica le lettere di Francesco non soltanto come «ciceroniane», bensì come «ateniesi». Non stupisce che in una delle proprie lettere a Antoine Favre si trovi la celebre citazione di Terenzio: «Nulla di ciò che è umano ci è estraneo», un adagio divenuto una professione di fede presso gli umanisti.
            In conclusione, Francesco ha considerato questa amicizia come un dono del cielo, descrivendola come un’«amicizia fraterna che la divina Bontà, forgiatrice della natura, ha intessuto in maniera così viva e perfetta tra lui e me, nonostante fossimo diversi per nascita e vocazione, e diseguali quanto a doni e a grazie che io possedevo solo in lui». Durante gli anni difficili che stavano per sopraggiungere, Antoine Favre sarà sempre il suo confidente e il suo migliore sostegno.

Una missione pericolosa
            Nel 1594, il duca di Savoia, Carlo Emanuele I (1580-1630), aveva appena recuperato il Chiablese, regione vicina a Ginevra, situata a sud del lago Lemano, da tempo contesa tra i vicini. La storia politico-religiosa del Chiablese era complicata, come dimostra una lettera scritta in un italiano approssimativo nel febbraio del 1596 e destinata al nunzio di Torino:

Fu occupata dai Bernesi una parte di questa diocesi di Geneva, fa sessant’anni, [e] rimase eretica; la quale essendo ridotta in pieno potere di Sua Altezza Serenissima questi anni passati, per la guerra, [e riunita al] suo antico patrimonio, molti degli [abitanti,] mossi piuttosto dal rimbombo degli archibugi che dalle prediche che ivi si facevano per ordine di Monsignor Vescovo, si ridussero alla fede nel seno della santa madre Chiesa. Ma poi, essendo infestate quelle contrade dalle incursioni dei ginevrini e francesi, ritornarono nel fango.

            Il duca, intenzionato a ricondurre al cattolicesimo quella popolazione di circa venticinquemila anime, si rivolse al vescovo perché facesse quanto era necessario fare. Già nel 1589 questi aveva inviato cinquanta parroci a riprendere possesso delle parrocchie, ma furono tosto cacciati indietro dai calvinisti. Questa volta occorreva procedere in maniera diversa e, precisamente, inviare colà due o tre missionari molto colti e in grado di far fronte alla tempesta che non sarebbe mancata dall’abbattersi sui «papisti». Nel corso di un’assemblea del clero, il vescovo espose il progetto e fece appello a dei volontari. Nessuno fiatava. Allorché egli volse gli occhi verso il prevosto di Sales, questi gli disse: «Monsignore, se crede che sia capace e se me lo comanda, sono pronto a obbedire e vi andrò volentieri».
            Sapeva bene ciò che l’attendeva e che sarebbe stato accolto con «ingiurie sulle labbra o pietre in mano». Per Francesco, l’opposizione di suo padre a tale missione (dannosa per la vita e ancor più per l’onore della famiglia) non appariva più un ostacolo, perché riconosceva nell’ordine del vescovo una volontà superiore. Alle obiezioni paterne riguardanti i pericoli assai reali della missione, rispose con fierezza:

Dio, mio Padre, provvederà: è lui che aiuta i forti; occorre solo avere coraggio. […] E che ne sarebbe se ci inviassero in India o in Inghilterra? Non ci si dovrebbe andare? […] È vero, è un’impresa laboriosa, e nessuno oserebbe negarlo; ma perché portiamo queste vesti se rifuggiamo dal portarne il peso?

            Si preparò alla missione al castello di Sales all’inizio del mese di settembre 1594, in un clima pesante: «Suo padre non volle vederlo, perché era totalmente contrario all’impegno apostolico del figlio e l’aveva ostacolato con tutti gli sforzi immaginabili, senza essere stato in grado di scalfirne la generosa decisione. L’ultima sera, disse addio in segreto alla sua virtuosa madre».
            Il 14 settembre 1594 giungeva nel Chiablese in compagnia del cugino Louis de Sales. Quattro giorni dopo suo padre gli inviò un servitore per comunicargli di ritornare, «ma il santo giovane [in risposta] rimandò indietro il suo valletto Georges Rolland e il proprio cavallo, e persuase anche il cugino a rientrare per tranquillizzare la famiglia. Il cugino gli obbedì, anche se successivamente ritornò a trovarlo. E il nostro santo ha raccontato […] che in tutta la sua vita non aveva mai provato una così grande consolazione interiore, né tanto coraggio nel servizio di Dio e delle anime come quel 18 settembre 1594, giorno in cui si trovò senza compagno, senza valletto, senza equipaggio e costretto a girare qua e là, da solo, povero e a piedi, impegnato a predicare il Regno di Dio».
            Per dissuaderlo dal compiere tale rischiosa missione, suo padre gli tagliò i viveri. Secondo Pierre Magnin, «il signor padre di Francesco, come ebbi modo di apprenderlo dalle labbra del santo uomo, non voleva assisterlo con quella abbondanza che sarebbe stata necessaria, desideroso di distoglierlo dal tale impresa iniziata dal figlio contro il suo parere, ben consapevole del palese pericolo cui esponeva la vita. E una volta lo lasciò partire da Sales per ritornare a Thonon con un solo scudo, sicché [Francesco] fu costretto […] a fare la strada a piedi, sovente mal calzato e mal vestito, esposto a un rigido freddo, al vento, alla pioggia e alla neve insopportabile in questo paese».
            Dopo un’aggressione di cui fu vittima con Georges Rolland, il signore di Boisy tentò di nuovo di distoglierlo dall’impresa, ma anche questa volta senza successo. Francesco tentò di far vibrare le corde dell’orgoglio paterno scrivendogli con encomiabile coraggio queste righe:

Se Rolland fosse vostro figlio, mentre non è che un vostro valletto, non avrebbe avuto così poco coraggio da indietreggiare per uno scontro modesto come quello che gli è toccato, e non ne parlerebbe come d’una grande battaglia. Nessuno può dubitare della cattiva volontà dei nostri avversari; ma voi ci fate un torto quando dubitate del nostro coraggio. […] Vi scongiuro quindi, Padre mio, di non attribuire la mia perseveranza alla disobbedienza e di considerarmi sempre come il vostro figlio rispettosissimo.

            Un illuminante rilievo tramandatoci da Albert de Genève aiuta a comprendere meglio ciò che alla fine convinse il padre a cessare di opporsi al figlio. Il nonno di questo testimone al processo di beatificazione, amico del signor di Boisy, aveva detto un giorno al padre di Francesco che doveva sentirsi «assai fortunato di avere un figlio così caro a Dio, e che lo riteneva troppo saggio e timorato di Dio per opporsi alla santa volontà [del figlio], tesa a realizzare un disegno in cui il santo nome di Dio sarebbe stato molto glorificato, la Chiesa esaltata e il casato di Sales ne avrebbe ricevuto una gloria maggiore di tutti gli altri titoli, per quanto illustri fossero».

Il tempo delle responsabilità
            Prevosto della cattedrale nel 1593 all’età di soli venticinque anni, capo della missione nel Chiablese l’anno successivo, Francesco di Sales poteva contare su una formazione eccezionalmente ricca e armoniosa: educazione familiare curata, formazione morale e religiosa di qualità, studi letterari, filosofici, teologici, scientifici e giuridici di alto livello. È vero, aveva beneficiato di possibilità interdette alla maggioranza dei suoi contemporanei, ma in lui erano fuori dall’ordinario lo sforzo personale, la generosa risposta agli appelli avuti e la tenacia di cui diede prova nel perseguire la sua vocazione, senza parlare della spiccata spiritualità che ispirava il suo comportamento.
            Ormai diventerà un uomo pubblico, con incarichi di responsabilità sempre più ampi, che gli consentiranno di mettere a profitto degli altri i propri doni di natura e di grazia. Preconizzato a divenire vescovo coadiutore di Ginevra già nel 1596, nominato vescovo nel 1599, diventerà vescovo di Ginevra alla morte del predecessore nel 1602. Uomo di Chiesa prima di tutto, ma assai immerso nella vita della società, lo vedremo preoccuparsi non solo dell’amministrazione della diocesi, ma anche della formazione del popolo affidato al suo ministero pastorale.