Francesco nacque il 21 agosto 1567 al castello di Sales, a Thorens, vicino ad Annecy, nella Savoia, in un paesaggio di monti e di valli campestri.
Il padre di Francesco era un uomo leale, cavalleresco, generoso e allo stesso tempo emotivo e impulsivo. In virtù della sua saggezza e del suo senso d’equità, era sovente scelto come arbitro nelle dispute e nei processi. Inoltre si dimostrava assai accogliente verso i poveri del vicinato, al punto che avrebbe dato la sua minestra a un povero piuttosto che rinviarlo a chiedere l’elemosina. Di sua madre Francesca, santa Giovanna di Chantal ha tracciato questo mirabile ritratto:
Era una signora tra le più ragguardevoli del suo tempo. Era dotata di un animo nobile e generoso, ma puro, innocente e semplice, da vera madre e nutrice dei poveri. Era modesta, umile e bonaria con tutti, molto tranquilla nella sua casa; governava con saggezza la propria famiglia, preoccupata di farla vivere nel timore di Dio.
Alla nascita di Francesco, suo primogenito, aveva solo quindici anni, mentre suo marito ne aveva più di quaranta. Questa differenza di età non era rara all’epoca, soprattutto tra i nobili, dato che il matrimonio era considerato prima di tutto come l’alleanza tra due famiglie per avere figli e ingrandire le proprie terre e i propri titoli. Il sentimento contava poco allora, il che non impedì che tale unione, all’apparenza mal combinata, si rivelasse solida e felice.
La maternità si annunciava particolarmente difficile. La futura mamma pregò davanti alla Santa Sindone, allora conservata a Chambéry, capitale della Savoia. Francesco venne al mondo due mesi prima del termine naturale e, nel timore della sua sopravvivenza, venne tosto battezzato.
Su Francesco, figlio primogenito, erano riposte tutte le speranze del padre, il quale prevedeva per lui una prestigiosa carriera al servizio del suo paese. Tale progetto sarà una fonte di difficoltà durante tutto il periodo della sua giovinezza, segnata da una tensione tra l’obbedienza al padre e la propria particolare vocazione.
I primi sei anni (1567-1573)
Alla nascita del piccolo Francesco, sua giovane madre non essendo in grado di allattarlo, si fece ricorso a une contadina del paese. Tre mesi più tardi, se ne prese cura per qualche tempo la sua madrina, cioè la sua nonna materna.
«Mia madre ed io» – scriverà un giorno – «siamo un tutt’uno». In effetti, il bimbo «non è ancora in grado di usare la sua volontà, né può amare altro che il seno e il volto della sua cara madre». È un modello di abbandono alla volontà di Dio:
Non pensa affatto a voler esser da un lato o dall’altro e non desidera altro che essere tra le braccia di sua madre, con la quale pensa di formare una cosa sola; né si preoccupa punto di conformare il proprio volere a quello della madre, perché non lo percepisce, né si cura di averlo, e lascia che sua madre si muova, faccia e decida ciò che ritiene bene per lui.
Francesco di Sales affermava inoltre che i bambini non ridono prima del quarantesimo giorno. Solo dopo quaranta giorni essi ridono, cioè sono consolati, perché, come dice Virgilio, «solo allora incominciano a conoscere la propria madre».
Il piccolo Francesco venne svezzato solamente nel novembre del 1569, quando aveva ormai due anni e tre mesi. A tale età aveva già incominciato a camminare e a parlare. Imparare a camminare avviene in maniera progressiva e capita sovente che i bambini cadano in terra, il che non è affatto grave, perché «mentre sentono che la loro madre li tiene per le maniche, camminano svelti e si aggirano qua e là, senza meravigliarsi dei capitomboli che le loro gambe insicure fanno far loro». Talvolta è il padre che osserva il suo bimbo, tuttora debole e incerto nel muovere i primi passi, e gli dice: “adagio adagio, bambino mio”; se poi cade, lo incoraggia dicendo: “ha fatto un salto, è saggio, non piangere”; poi gli si avvicina e gli dà la mano».
D’altra parte, imparare a camminare come a parlare avviene per imitazione. È «a forza di udire la madre e di balbettare con lei», che il bambino impara a parlarne la stessa lingua.
Avventure e giochi infantili
L’infanzia è il tempo della scoperta e dell’esplorazione. Il piccolo Savoiardo ha osservato la natura che lo circondava e ne rimase estasiato. A Sales, sul versante delle montagne a est, tutto è grandioso, imponente, austero; ma lungo la valle, al contrario, tutto è verdeggiante, ubertoso e ameno. Al castello di Brens, nel Chiablese, dove probabilmente fece vari soggiorni tra i tre e i cinque anni, il piccolo Francesco poteva ammirare lo splendore del lago di Lemano. Ad Annecy, il lago circondato da colline e monti non lo lasciò mai indifferente, come lo dimostrano le numerose immagini letterarie riguardanti la navigazione. È facile costatare che Francesco di Sales non fu un uomo nato in città.
Il mondo degli animali, all’epoca ancora così presente nei castelli, nei paesi e anche in città, è un incanto e una fonte di istruzione per il bambino. Pochi autori ne hanno parlato in maniera tanto abbondante quanto lui. Molte delle sue informazioni (sovente leggendarie) le ha attinte alle sue letture; tuttavia l’osservazione personale dovette contare non poco, ad esempio quando scrive che «l’alba fa cantare il gallo; la stella del mattino allieta i malati, invita al canto gli uccelli».
Il piccolo Francesco ha considerato a lungo e ammirato, il lavoro delle api, ha osservato e ascoltato attentamente le rondini, i colombi, la chioccia e le rane. Quante volte ha dovuto assistere al pasto dei piccioni nel cortile del castello!
Il bambino ha soprattutto bisogno di manifestare il suo desiderio di diventare grande e di crescere tramite il gioco, che è anche la scuola del vivere insieme e una maniera di prendere possesso dell’ambiente circostante. Francesco ha giocato a dondolo su cavalli di legno? In ogni caso, egli racconta in una sua predica che «i bambini dondolano su cavalli di legno, li chiamano cavalli, nitriscono per loro, corrono, saltano, si trastullano con questo puerile divertimento». Ed ecco un ricordo personale della sua infanzia: «Quando eravamo bambini, con quale cura assemblavamo pezzi di tegole, di legni, di fango per costruire casette e minuscoli fabbricati! E se qualcuno li distruggeva ci sentivamo smarriti e piangevamo».
Ma la scoperta del mondo circostante non avviene sempre senza rischi e l’apprendimento del camminare riserva delle sorprese. La paura a volte è un’ottima consigliera, specialmente nel caso in cui c’è un rischio reale. Se i bambini vedono un cane che abbaia, “subito si mettono a gridare e non smettono fino a quando non sono vicini alla loro mamma. Tra le sue braccia si sentono sicuri e fin tanto che ne stringono la mano pensano che nessuno gli possa far del male”. A volte però il pericolo è immaginario. Il piccolo Francesco aveva paura del buio, ed ecco come ne fu guarito dalla paura del buio: “Mi sforzai poco alla volta di andare da solo, con il cuore armato unicamente della fiducia in Dio, nei luoghi dove la mia immaginazione mi incuteva paura; alla fine mi sono rinfrancato a tal punto da considerare deliziose le tenebre e la solitudine della notte, a motivo di questa presenza di Dio, che in tale solitudine diventa ancor più desiderabile”.
L’educazione familiare
La prima educazione spettava alla madre. Tra la giovane mamma e il suo primogenito si stabilì un’intimità eccezionale. Si disse che ella fosse incline a coccolare il suo figlio, il quale peraltro le assomigliava parecchio. Preferiva vederlo vestito da paggetto piuttosto che in costume da gioco. La madre si prese cura della sua educazione religiosa, e, preoccupata di insegnargli il suo «piccolo credo», lo conduceva con sé alla chiesa parrocchiale di Thorens.
Da parte sua, il bambino sperimentava tutto l’affetto di cui era fatto oggetto e la prima parola del bimbo sarebbe stata questa: «Mio Dio e madre mia, mi amano tanto». «L’amore delle madri verso i figli è sempre più tenero di quello dei padri» – scriverà Francesco di Sales –, perché a suo modo di vedere, «a loro costa di più». Secondo un testimone, è lui che consolava talvolta sua madre nei suoi momenti di melanconia dicendole: “Ricorriamo al buon Dio, mia buona madre, ed egli ci aiuterà”.
Da suo padre incominciò ad apprendere uno «spirito giusto e ragionevole». Egli gli faceva comprendere il motivo di ciò che gli era chiesto, insegnandogli a essere responsabile dei propri atti, a non mentire mai, a evitare i giochi d’azzardo, ma non quelli di destrezza e di intelligenza. Fu sicuramente assai soddisfatto della risposta che suo figlio gli diede allorché all’improvviso gli chiese a che cosa pensava: «Padre mio, penso a Dio e a essere un uomo da bene».
Per rinforzarne il carattere, suo padre gli impose uno stile di vita virile, la fuga di comodità corporali, ma anche giochi all’aria aperta con i cugini Amé, Louis e Gaspard. Soprattutto con costoro Francesco passerà la sua infanzia e giovinezza, durante il gioco e in collegio. Imparò a montare a cavallo e a maneggiare le armi da caccia. Gli vennero dati come compagni anche ragazzi del paese, ma scelti con cura.
Fanciullo di solito saggio e tranquillo, Francesco manifestava però in alcune circostanze impeti d’ira sorprendenti. In occasione della visita di un protestante al castello della famiglia, diede sfogo alla sua animosità contro le galline, che si mise a bastonare, gridando a squarcia gola: «Su! su! addosso agli eretici!». Ci vorranno tempo e sforzi per convertirsi alla “dolcezza salesiana”.
L’entrata a scuola
A sei o sette anni il bambino raggiunge l’uso della ragione. Per la Chiesa, ha ormai la capacità di discernere il bene e il male, e, per gli umanisti, può incominciare a frequentare la scuola primaria. È l’età in cui di solito nelle famiglie nobili i fanciulli passano dalle mani delle donne a quelle degli uomini, dalla madre al padre, dalla governante al tutore o precettore. L’età della ragione segnava anche, per un’esigua minoranza di fanciulli, l’entrata in una scuola o in un collegio. Ora Francesco dimostrava notevoli disposizioni allo studio, anzi una tale impazienza da fargli supplicare di mandarlo a scuola senza indugi.
Nell’ottobre del 1573, Francesco venne inviato al collegio di La Roche, in compagnia dei suoi cugini Amé, Louis et Gaspard. Alla tenera età di sei anni, Francesco si allontanò quindi dalla famiglia. Vi resterà due anni per fare la sua «piccola grammatica». I fanciulli alloggiati nella città, posti sotto la sorveglianza di un pedagogo particolare, si mescolavano durante la giornata nella massa dei trecento allievi che frequentavano il collegio. Un servo della famiglia si occupava in modo speciale di Francesco che era il più piccolo.
Stando a ciò che conosciamo delle scuole dell’epoca, i fanciulli cominciavano a leggere e a scrivere, servendosi di sillabari e di primi elementi di grammatica, a recitare a memoria le preghiere e alcuni testi scelti, a imparare i rudimenti della grammatica latina, le declinazioni e le coniugazioni dei verbi. L’impegno della memoria, ancora molto dipendente dal metodo didattico in uso, era concentrato soprattutto sui testi di religione, ma si insisteva già sulla qualità della dizione, tratto caratteristico dell’educazione umanista. In fatto di educazione morale, che occupava allora un posto importante nella formazione umanista degli allievi, essa mutuava i suoi modelli più dall’antichità pagana che dagli autori cristiani.
Fin dall’inizio dei suoi studi al collegio di La Roche, Francesco si comportò da eccellente allievo. Ma questo primo contatto con il mondo scolastico può aver lasciato in lui qualche ricordo meno gradevole, come racconterà lui stesso a un amico. Non gli era mai capitato di mancare senza volerlo alla scuola e di essere «nella situazione in cui si trovano talvolta dei buoni scolari che, giunti in ritardo, hanno marinato certe lezioni»?
Essi vorrebbero certo rientrare nell’orario d’obbligo e riconquistarsi la benevolenza dei loro professori; ma oscillando tra la paura e la speranza, non sanno decidersi in quale ora comparire davanti al professore irritato; bisogna evitare la sua attuale collera sacrificando il perdono sperato, oppure ottenerne il perdono esponendosi al rischio di essere puniti? In tale esitazione lo spirito del fanciullo deve penare non poco nel discernere ciò che gli è più vantaggioso.
Due anni più tardi, sempre con i suoi cugini, eccolo al collegio d’Annecy, dove Francesco studierà per tre anni. Con i suoi cugini alloggiava in città presso una signora, che chiamava sua zia. Dopo i due anni di grammatica a La Roche, entrò nel terzo anno di studi classici e fece dei rapidi progressi. Tra le esercitazioni in uso al collegio vi erano le declamazioni. Il ragazzo vi eccelleva, «perché aveva un portamento nobile, un bel fisico, un viso attraente e un’ottima voce».
Sembra che la disciplina fosse quella tradizionale e severa, e sappiamo che un reggente si comportava come un vero castigamatti. Ma la condotta di Francesco non lasciava punto a desiderare; un giorno avrebbe lui stesso chiesto di essere castigato al posto del cugino Gaspard che piangeva impaurito.
L’evento religioso più importante per un fanciullo era la prima comunione, sacramento con il quale “siamo uniti e congiunti alla divina bontà e riceviamo la vera vita delle nostre anime”. Come dirà più tardi a proposito della comunione, egli avrà preparato “il suo piccolo cuore per essere la dimora di Colui” che vuole “possederlo” tutto intero. Lo stesso giorno ricevette a poche ore di distanza il sacramento della cresima, sacramento con il quale ci uniamo cin Dio “come il soldato con il suo capitano”. In tale occasione i suoi genitori gli diedero come precettore don Jean Déage, un uomo burbero, perfino collerico, ma totalmente dedito al suo allievo che accompagnerà durante tutto il tempo della sua formazione.
Alla soglia dell’adolescenza
Gli anni dell’infanzia e della fanciullezza di Francesco nella Savoia lasceranno in lui in modo incontestabile un’impronta indelebile, ma susciteranno anche nel suo animo i primi germi di una vocazione particolare. Impegnato a dare agli altri il buon esempio con discrezione, interveniva presso i suoi compagni con opportune iniziative. Ancora molto giovane, gli piaceva riunirli per insegnare loro la lezione di catechismo, che stava imparando. Dopo i giochi, li conduceva a volte alla chiesa di Thorens, dove erano diventati figli di Dio. Nei giorni di vacanza, li portava con sé a passeggio nei boschi e ai bordi del fiume a cantare e pregare.
Ma la sua formazione intellettuale era solo agli inizi. Al termine di tre anni al collegio d’Annecy, conosceva tutto ciò che la Savoia era in grado di insegnargli. Suo padre decise di inviarlo a Parigi, la capitale del sapere, per fare di lui un «dotto». Ma in quale collegio inviare un figlio tanto dotato? La sua scelta era indirizzata dapprima al collegio di Navarre frequentato dai nobili. Ma Francesco intervenne abilmente aiutato dalla madre. Dietro le insistenze del figlio, alla fine il padre accettò di mandarlo al collegio di Clermont dei padri gesuiti.
Fatto significativo: prima di partire, Francesco chiese di ricevere la tonsura, una pratica ancora ammessa all’epoca per i fanciulli destinati alla carriera ecclesiastica, che però non dovette essere gradita a suo padre, che non si augurava una vocazione ecclesiastica per il figlio primogenito.
Giunto alla soglia dell’adolescenza, il ragazzo inizia una nuova tappa della sua vita. «L’infanzia è bella – scriverà un giorno – ma volere essere sempre bambini è compiere una scelta sbagliata, perché un bambino di cento anni è disprezzato. Incominciare ad apprendere è molto lodevole, ma chi incomincia con l’intento di non perfezionarsi mai, agirebbe contro ragione». Dopo aver ricevuto in Savoia i germi di questi «molteplici doni di natura e di grazia», Francesco troverà a Parigi grandi possibilità di coltivarli e di svilupparli.
L’infanzia di un futuro santo: san Francesco di Sales
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