🕙: 10 min.
image_pdfimage_print

            Francesco di Sales non desiderava diventare vescovo. «Io non sono nato per comandare», avrebbe detto a un confratello, il quale per incoraggiarlo gli diceva: «Ma tutti vi vogliono!». Accettò quando riconobbe il volere di Dio in quello del duca, del vescovo mons. de Granier, del clero e del popolo. Fu consacrato vescovo di Ginevra l’8 dicembre 1602 nella piccola chiesa della sua parrocchia di Thorens. In una lettera a Giovanna di Chantal scriverà che, in quel giorno, «Dio mi aveva tolto a me stesso per prendermi per sé, e quindi, darmi al popolo, intendendo dire che mi aveva trasformato da ciò che ero per me in ciò che dovevo essere per loro».
            Per compiere la missione pastorale affidatagli e volta al servizio di «questa misera et afflitta diocesi di Ginevra», aveva bisogno di collaboratori. Certo, secondo le circostanze amava chiamare tutti i fedeli «miei fratelli e miei collaboratori», ma tale appellativo era diretto a maggior ragione ai membri del clero, suoi «confratelli». La riforma del popolo auspicata dal concilio di Trento poteva iniziare anzi tutto da loro e per mezzo di loro.

La pedagogia dell’esempio
            Prima di tutto, il vescovo doveva dare l’esempio: il pastore doveva divenire il modello del gregge a lui affidato, e in primo luogo del clero. A tale scopo, Francesco di Sales si impose un Regolamento episcopale. Redatto in terza persona, prevedeva non soltanto i doveri strettamente religiosi dell’incarico pastorale, ma anche la pratica di un certo numero di virtù sociali, quali la semplicità della vita, la cura abituale dei poveri, la buona educazione e la decenza. Fin dall’inizio si legge un articolo contro la vanità ecclesiastica:

In primo luogo, quanto al comportamento esterno Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, non indosserà abiti di seta e neppure vesti che siano più preziose di quelle finora portate; tuttavia esse saranno pulite, ben confezionate in modo da essere indossate con proprietà attorno al corpo.

            Nella sua casa episcopale si contenterà di due ecclesiastici e di qualche servo, sovente giovanissimo. Saranno anch’essi formati alla semplicità, alla cortesia e al senso dell’accoglienza. La tavola sarà frugale, ma curata e pulita. La sua casa dovrà essere aperta a tutti, perché «la casa d’un vescovo deve essere come una fontana pubblica, dove i poveri e i ricchi hanno lo stesso diritto di avvicinarsi per attingere l’acqua».
            Inoltre, il vescovo dovrà continuare a formarsi e a studiare: «Farà in modo di imparare ogni giorno qualcosa comunque utile e che sia conveniente per la sua professione». Di norma consacrerà due ore per studiare, tra le sette e le nove del mattino, e dopo la cena potrà leggere per la durata di un’ora. Riconosceva che lo studio gli piaceva, esso però gli era indispensabile: si considerava come un «perpetuo studente di teologia».

Conoscere le persone e le situazioni
            Un vescovo di questa levatura non poteva contentarsi di essere unicamente un buon amministratore. Per condurre il gregge, il pastore deve conoscerlo, e per conoscere l’esatta situazione della diocesi e del clero in particolare, Francesco di Sales intraprese una serie impressionante di visite pastorali. Nel 1605 visitò 76 parrocchie situate nella zona francese della diocesi e rientrò «dopo aver battuto le campagne per sei settimane senza interruzione». L’anno seguente, un grande giro pastorale durato alcuni mesi lo portò in 185 parrocchie, circondate da «monti spaventosi, coperti d’una lastra di ghiaccio spessa da dieci a dodici pertiche». Nel 1607 si rese presente in 70 parrocchie e, nel 1608, pose fine alle visite ufficiali della sua diocesi spostandosi in 20 parrocchie nei dintorni d’Annecy, ma continuerà a fare ancora non poche visite nel 1610 ad Annecy e nelle parrocchie circostanti. Nel corso di sei anni avrà visitato 311 parrocchie con le loro filiali.
            Grazie a queste visite e ai contatti personali, acquistò una conoscenza precisa della situazione reale e dei bisogni concreti della popolazione. Costatò l’ignoranza e la mancanza di spirito sacerdotale di certi preti, senza dimenticare gli scandali di alcuni monasteri dove la Regola non era più osservata. Il culto interessato, ridotto a funzione e inficiato dalla ricerca del guadagno, richiamava fin troppo i cattivi esempi tratti dalla Bibbia: «Assomigliamo a Nabal e Assalonne, che gioivano solo alla tosatura del gregge».
            Allargando il suo sguardo sulla Chiesa, giungeva a denunciare la vanità di certi prelati, veri «cortigiani di Chiesa», che paragonava ai coccodrilli e ai camaleonti: «Il coccodrillo è un animale a volte terrestre e a volte acquatico, partorisce sulla terra e va a caccia in acqua; così si comportano i cortigiani di Chiesa. Gli alberi dopo il solstizio rigirano le foglie: l’olmo, il tiglio, il pioppo, l’ulivo, il salice; avviene lo stesso tra gli ecclesiastici».
            Alle lagnanze riguardanti il comportamento del clero aggiungeva i rimproveri per la loro debolezza di fronte alle ingiustizie commesse dal potere temporale. Ricordando alcuni vescovi coraggiosi del passato, esclamava: «Oh! come vorrei vedere degli Ambrogio che comandano a Teodosio, dei Crisostomo che sgridano Eudossia, degli Ilario che correggono Costanzo!». Se si presta fede a una confidenza della madre Angelica Arnauld, mons. di Sales gemeva anche sui «disordini della Curia di Roma», veri «argomenti lacrimevoli», ben convinto però che «parlarne al mondo nella situazione in cui esso si trova, è causa di inutile scandalo».

Selezione e formazione dei candidati
            Il rinnovamento della Chiesa comportava uno sforzo teso al discernimento e alla formazione dei futuri preti, assai numerosi all’epoca. In occasione della prima visita pastorale nel 1605, il vescovo ricevette 175 giovani candidati; l’anno successivo ne ebbe 176; in meno di due anni aveva incontrato 570 candidati al ministero presbiterale o novizi nei monasteri.
            Il male nasceva in primo luogo dall’assenza di vocazione in un buon numero di loro. Sovente era preminente l’attrattiva del beneficio temporale o il desiderio delle famiglie di collocare i loro secondogeniti. In ogni caso si imponeva un discernimento diretto a valutare se la vocazione veniva «dal cielo o dalla terra».
            Il vescovo di Ginevra prendeva molto sul serio i decreti del concilio di Trento, il quale aveva previsto la creazione di seminari. La formazione doveva iniziare in tenera età. Fin dal 1603, si tentò di dar vita a un embrione di seminario minore a Thonon. Gli adolescenti erano poco numerosi, probabilmente per mancanza di mezzi e di spazio. Nel 1618 Francesco di Sales si propose di ricorrere direttamente all’autorità della Santa Sede per ottenere un appoggio giuridico e finanziario al proprio progetto. Voleva erigere un seminario, scriveva, nel quale i candidati potessero «imparare a osservare le cerimonie, a catechizzare ed esortare, a cantare ed esercitare le altre virtù clericali». Tutti i suoi sforzi, però, furono vani per la mancanza di risorse materiali.
            Come assicurare la formazione dei futuri preti in tali condizioni? Alcuni frequentavano i collegi o le università all’estero, mentre in maggioranza si formavano nelle canoniche, sotto la guida di un prete saggio e istruito o nei monasteri. Francesco di Sales voleva che in ogni centro importante della diocesi ci fosse un «teologale», ossia un membro del capitolo della cattedrale incaricato d’insegnare la sacra Scrittura e la teologia.
            L’ordinazione, ad ogni modo, era preceduta da un esame e prima di vedersi assegnata una parrocchia (con l’annesso beneficio), il candidato doveva superare un concorso. Il vescovo vi assisteva e interrogava di persona il candidato per cerziorarsi che possedesse le conoscenze e le qualità morali richieste.

Formazione permanente
            La formazione non doveva fermarsi al momento dell’ordinazione o dell’assegnazione di una parrocchia. Per assicurare la formazione continua dei suoi preti, il mezzo principale di cui disponeva il vescovo era l’annuale convocazione del sinodo diocesano. Il primo giorno di detta assemblea era solennizzato da una messa pontificale e da una processione attraverso la città di Annecy. Il secondo giorno, il vescovo lasciava la parola a uno dei suoi canonici, faceva rileggere gli statuti dei sinodi precedenti e raccoglieva le osservazioni dei parroci presenti. Dopo ciò incominciava il lavoro in commissioni per discutere di questioni riguardanti la disciplina ecclesiastica e il servizio spirituale e materiale delle parrocchie.
            Siccome le costituzioni sinodali contenevano parecchie norme disciplinari e rituali, la cura della formazione permanente, intellettuale e spirituale vi era visibile. Si riferivano ai canoni degli antichi concili, ma soprattutto ai decreti del «santissimo concilio di Trento». D’altra parte, vi si raccomandava la lettura di opere che trattavano di pastorale o di spiritualità, come quelle del Gersone (probabilmente l’Istruzione dei parroci per istruire il popolo semplice) e quelle del domenicano spagnolo Luis de Granada, autore di un’Introduzione al simbolo.
            La scienza, scriveva in una sua Esortazione agli ecclesiastici, «è l’ottavo sacramento della gerarchia della Chiesa». I mali della Chiesa erano dovuti principalmente all’ignoranza e alla pigrizia del clero. Per fortuna, sono venuti i padri gesuiti! Modelli di preti istruiti e zelanti, questi «grandi uomini», che «divorano i libri con i loro incessanti studi», hanno «ristabilito e consolidato la nostra dottrina e tutti i santi misteri della nostra fede; sicché ancor oggi, grazie al loro encomiabile lavoro, riempiono il mondo di uomini dotti che distruggono ovunque l’eresia». Nella conclusione, il vescovo riassumeva tutto il suo pensiero: «Siccome la divina Provvidenza, senza aver riguardo della mia incapacità, mi ha stabilito vostro vescovo, vi esorto a studiare senza stancarvi, affinché essendo dotti ed esemplari, siate irreprensibili, e pronti a rispondere a tutti coloro che vi interrogano su argomenti di fede».

Formare i predicatori
            Francesco di Sales predicava tanto sovente e così bene da essere considerato come uno dei migliori predicatori del suo tempo e modello dei predicatori. Predicò non soltanto nella sua diocesi, ma accettò di predicare anche a Parigi, a Chambéry, a Digione, a Grenoble e a Lione. Predicò inoltre nella Franca Contea, a Sion nel Vallese e in parecchie città del Piemonte, in particolare a Carmagnola, Mondovì, Pinerolo, Chieri e Torino.
            Per conoscere il suo pensiero sulla predicazione occorre far riferimento alla lettera che indirizzò, nel 1604, ad Andrea Frémyot, fratello della baronessa di Chantal, giovane arcivescovo di Bourges (aveva solo trentun anni), che gli aveva chiesto consiglio sul modo di predicare. Per predicare bene, diceva, occorrono due cose: la scienza e la virtù. Per ottenere un buon risultato, il predicatore deve cercare di istruire i suoi uditori e di toccare il loro cuore.
            Per istruirli bisogna andare sempre alla fonte: la Sacra Scrittura. Le opere dei Padri non dovranno essere trascurate; in effetti, «che cos’è la dottrina dei Padri della Chiesa, se non una spiegazione del Vangelo e un’esposizione della sacra Scrittura?». È bene servirsi ugualmente della vita dei santi che ci fanno sentire la musica del Vangelo. Quanto al grande libro della natura, creazione di Dio, opera della sua parola, esso costituisce una sorgente straordinaria di ispirazione se lo si sa osservare e meditare. «È un libro – scrive – che contiene la parola di Dio». Da uomo del suo tempo, cresciuto alla scuola degli umanisti classici, Francesco di Sales non escludeva dalle sue prediche gli autori pagani dell’antichità e persino un pizzico della loro mitologia, ma occorreva servirsene «come si usano i funghi, cioè, solo per stuzzicare l’appetito».
            Inoltre, ciò che aiuta parecchio la comprensione della predicazione e che la rende gradevole, è l’uso delle immagini, dei paragoni e degli esempi, tratti dalla Bibbia, dagli antichi autori o dall’osservazione personale. Le similitudini, infatti, possiedono «un’efficacia incredibile quando si tratta d’illuminare l’intelligenza e muovere la volontà».
            Ma il vero segreto dell’efficacia della predicazione è la carità e lo zelo del predicatore, che sa trovare nel più profondo del suo cuore le parole adatte. Bisogna parlare «con calore e con devozione, con semplicità, con candore e con fiducia, essere profondamente convinti di quello che si insegna e si inculca agli altri». Le parole devono uscire dal cuore più che dalla bocca, perché «il cuore parla al cuore, mentre la bocca non parla che alle orecchie».

Formare i confessori
            Un altro compito assunto da Francesco di Sales fin dagli albori del suo episcopato fu redigere una serie di Avvertimenti ai confessori. Contengono non solo una dottrina sulla grazia di questo sacramento, ma anche norme pedagogiche dirette a coloro che hanno una responsabilità di guida delle persone.
            Innanzi tutto, chi è chiamato a lavorare alla formazione delle coscienze e al progresso spirituale degli altri deve incominciare da sé stesso, per non meritare il rimprovero: «Medico, cura te stesso»; e l’ammonimento dell’apostolo: «Tu che giudichi gli altri, condanni te stesso». Il confessore è un giudice: compete a lui decidere se assolvere o meno il peccatore, tenuto conto delle disposizioni interiori del penitente e delle norme in vigore. È insieme medico, perché «i peccati sono malattie e ferite spirituali», per cui spetta a lui prescrivere i rimedi appropriati. Francesco di Sales, però, evidenzia che il confessore è soprattutto un padre:

Ricordatevi che i poveri penitenti dando inizio alla loro confessione vi chiamano padre, e che in effetti voi dovete avere un cuore paterno nei loro confronti. Accoglieteli con immenso amore, sopportandone pazientemente la rozzezza, l’ignoranza, la debolezza, la lentezza nel comprendere e altre imperfezioni, non desistendo mai dall’aiutarli e soccorrerli fin tanto che in loro c’è qualche speranza che possano correggersi.

            Un buon confessore deve essere attento allo stato di vita di ciascuno e procedere in maniera diversificata, tenendo conto della professione di ognuno, “sposato o no, ecclesiastico o no, religioso o secolare, avvocato o procuratore, artigiano o contadino”. Il tipo di accoglienza, però, doveva essere uguale per tutti. Egli, a detta della madre di Chantal, riceveva tutti «con uguale amore e dolcezza»: «signori e signore, borghesi, soldati, cameriere, contadini, mendicanti, malati, galeotti puzzolenti e abietti».
            Riguardo alle disposizioni interiori, ogni penitente si presenta a modo suo, e Francesco di Sales può fare appello alla propria esperienza quando traccia una specie di tipologia di penitenti. C’è chi si accosta «tormentato dalla paura e dalla vergogna», chi si mostra «sfrontato e senza alcun timore», chi è «timido e nutre qualche sospetto di ottenere il perdono dei suoi peccati» e chi, infine, è «perplesso perché non sa dire i propri peccati oppure perché non sa fare il proprio esame di coscienza».
            Una buona maniera di incoraggiare il penitente timido e di infondergli fiducia consiste nel riconoscere voi stessi che «non siete un angelo», e che «non trovate strano che gli uomini commettano peccati». Con lo sfrontato occorre comportarsi con serietà e gravità, ricordandogli che «all’ora della morte di nient’altro renderà strettissimo conto se non delle confessioni mal fatte». Ma soprattutto, il vescovo di Ginevra insisteva su questa raccomandazione: «Siate caritatevoli e discreti verso tutti i penitenti e specialmente verso le donne». Si ritrova questa tonalità salesiana nel frammento del seguente consiglio: «Guardatevi bene dall’usare parole troppo rudi verso i penitenti; perché talvolta noi siamo così austeri nelle nostre correzioni da mostrarci biasimevoli più di quanto sono colpevoli coloro che rimproveriamo». Inoltre, cercherà di «non imporre ai penitenti penitenze confuse, bensì specifiche, e di essere più incline alla dolcezza che al rigore».

Formarsi insieme
            Conviene infine prendere in considerazione una preoccupazione del vescovo di Ginevra concernente l’aspetto comunitario della formazione, perché era persuaso dell’utilità dell’incontro, dell’animazione vicendevole e dell’esempio. Non ci si forma bene se non insieme; di qui il desiderio di riunire i preti e anche, per quanto possibile, di dividerli in gruppi. Le assemblee sinodali che, ad Annecy, vedevano riuniti una volta all’anno i parroci attorno al loro vescovo erano una cosa buona, anche insostituibile, ma non sufficiente.
            A tal fine, il vescovo di Ginevra allargò il ruolo dei «sorveglianti», una specie di animatori di settori pastorali con la «facoltà e la missione di sostenere, avvertire, esortare gli altri preti e di vegliare sulla loro condotta». Erano incaricati non soltanto di visitare i parroci e le chiese di loro competenza, ma anche di riunire i loro confratelli due volte all’anno per trattare problematiche pastorali. Il vescovo ci teneva molto a queste riunioni, «rimarcava l’importanza delle assemblee, e ingiungeva ai suoi sorveglianti di inviargli i registri dei presenti e le ragioni degli assenti». A detta di un testimone, vi faceva tenere «prediche sulle virtù richieste a un prete e sui doveri dei pastori riguardanti il bene delle anime loro affidate». Era prevista anche «una conferenza spirituale attinente le difficoltà che potevano nascere circa il significato delle Costituzioni sinodali oppure i mezzi necessari per ottenere migliori risultati in vista della salvezza delle anime».
            Il desiderio di raggruppare i preti fervorosi gli suggerì un progetto sul modello degli Oblati di sant’Ambrogio, fondati da san Carlo Borromeo per aiutarlo nel rinnovamento del clero. Non si potrebbe forse tentare qualche cosa di simile in Savoia per favorire tra le file del clero non soltanto la riforma ma anche la devozione? Di fatto, secondo l’amico mons. Camus, Francesco di Sales avrebbe coltivato il progetto di creare una congregazione di preti secolari «libera e senza voti». Vi rinunciò quando fu fondata a Parigi la congregazione dell’Oratorio, una società di «sacerdoti riformati» che lui stesso cercò di portare in Savoia.
            I suoi sforzi non furono coronati sempre dal successo; testimoniano, in ogni caso, la sua costante cura di formare i propri collaboratori nel quadro di un progetto globale di rinnovamento della vita ecclesiale.

P. Wirth MORAND
Salesiano di Don Bosco, professore universitario, biblista e storico salesiano, membro emerito del Centro Studi Don Bosco, autore di vari libri.