San Giuseppe è patrono della Chiesa e anche compatrono della Congregazione Salesiana. Già dagli inizi, don Bosco lo ha voluto associare come protettore della nascente opera a favore dei giovani. Certo della sua potente intercessione ha voluto diffondere il suo culto e ha scritto a questo scopo una vita, più per istruire che per meditare, che vogliamo presentare a continuazione.
Prefazione
In un’epoca in cui pare spiegarsi così universale la divozione verso il glorioso padre putativo di Gesù, san Giuseppe, crediamo non tornare discaro ai nostri lettori che venga oggi alla luce un fascicolo intorno alla vita di questo santo.
Né le difficoltà che s’incontrano di trovare negli antichi scritti i fatti particolari della vita di questo santo deve minimamente diminuire verso di lui la nostra stima e venerazione; anzi nello stesso sacro silenzio di cui è circondata la sua vita noi troviamo qualche cosa di misterioso e di grande. S. Giuseppe aveva ricevuto da Dio una missione tutta opposta a quella degli apostoli (Bossuet). Questi avevano per incarico di far conoscere Gesù; Giuseppe doveva tenerlo celato; quelli dovevano essere fiaccole che lo mostrassero al mondo, questi un velo che lo coprisse. Quindi Giuseppe non era per sé, ma per Gesù Cristo.
Era adunque nell’economia della Divina Provvidenza che s. Giuseppe si mantenesse oscuro mostrandosi solamente quanto era necessario per autenticare la legittimità del matrimonio con Maria, e sgombrare ogni sospetto sopra quella di Gesù. Ma quantunque non possiamo penetrare nel Santuario del Cuor di Giuseppe ed ammirare le meraviglie che Iddio ha in esso operato, tuttavia noi argomentiamo che per la gloria del suo Divin pupillo, per la gloria della sua sposa celeste, doveva Giuseppe riunire in sé stesso un cumulo di grazie e di doni celesti.
Siccome la vera perfezione cristiana consiste nel comparire tanto grandi davanti a Dio quanto più piccoli avanti agli uomini, s. Giuseppe, che passò la sua vita nella più umile oscurità, si trova in grado di fornire il modello di quelle virtù che sono come il fiore della santità, la santità interiore, cosicché si può dire benissimo di s. Giuseppe ciò che Davide scriveva della sacra sposa: Omnis gloria eius filia Regis ab intus (Ps. 44).
S. Giuseppe è riconosciuto universalmente ed invocato come protettore dei moribondi, e ciò per tre ragioni: 1° per l’impero amoroso che egli ha acquistato sopra il Cuor di Gesù, giudice dei vivi e dei morti e suo figliuolo putativo; 2° per la potenza straordinaria di cui Gesù Cristo lo ha insignito di vincere i demoni che assalgono i moribondi, e ciò in ricompensa d’averlo il santo salvato un tempo dalle insidie di Erode; 3° pel sublime onore di cui godette Giuseppe d’ essere stato assistito in punto di morte da Gesù e da Maria. Qual nuovo importante motivo per infervorarci nella sua divozione?
Bramosi pertanto di porgere ai nostri lettori i principali tratti della vita di s. Giuseppe abbiamo cercato fra le opere già pubblicate qualcheduna che servisse allo scopo. Molte infatti da alcuni anni videro la luce, ma o per essere troppo voluminose o troppo aliene per la loro sublimità dallo stile popolare, oppure scarse di dati storici perché scritte collo scopo di servir di meditazione più che d’istruzione, non tornavano a nostro proposito. Noi qui adunque abbiamo raccolto dal Vangelo e da alcuni de’ più accreditati autori le principali notizie intorno alla vita di questo santo, con qualche opportuno riflesso dei santi Padri.
La veracità del racconto, la semplicità dello stile, l’autenticità delle notizie renderanno, speriamo, gradita questa tenue fatica. Se la lettura di questo libretto servirà a procurare al casto sposo di Maria anche un solo devoto di più noi ci terremo già abbondantemente appagati.
Capo I. Nascita di s. Giuseppe. Suo luogo nativo.
Ioseph, autem, cum esset iustus. (S. Giuseppe era un uomo giusto. – Mt. 1,19)
A due leghe [9,7 km] circa da Gerusalemme sulla vetta d’un colle, il cui terreno rossastro è cosparso di oliveti, sorge una piccola città celebre per sempre a cagione della nascita del bambinello Gesù, la città di Betlemme, da cui la famiglia di Davide traeva la sua origine. In questa piccola città circa l’anno del mondo 3950 nasceva colui che negli alti disegni di Dio doveva diventare il custode della verginità di Maria, ed il padre putativo del Salvatore degli uomini.
I genitori gli diedero il nome di Giuseppe che significa aumento, quasi per farci intendere, che egli fu accresciuto dei doni di Dio e a dovizia ricolmato di tutte le virtù sin dalla nascita.
Due Evangelisti ci tramandarono la genealogia di Giuseppe. Suo padre aveva nome Giacobbe al dire di s. Matteo (Mt. 1,16), e secondo s. Luca si chiamava Eli (Lc. 3,23); ma la più comune e la più antica opinione si è quella che ci fu tramandata da Giulio Africano che scrisse sullo scorcio del secondo secolo dell’era cristiana. Giusta quanto gli era stato riferito dai parenti stessi del Salvatore, egli ci dice che Giacobbe ed Eli erano fratelli e che Eli essendo morto senza figli, Giacobbe ne aveva sposata la vedova siccome era prescritto dalla legge di Mosè, e da questo matrimonio nacque Giuseppe.
Della stirpe reale di Davide, discendenti da Zorobabele che ricondusse il popolo di Dio dalla cattività di Babilonia, i genitori di Giuseppe erano assai decaduti dall’antico splendore dei loro antenati in quanto all’agiatezza temporale. Secondo la tradizione, suo padre era un povero operaio che si guadagnava il quotidiano sostentamento col sudore della sua fronte. Ma Iddio che rimira non la gloria che si gode in faccia agli uomini, ma il merito della virtù agli occhi suoi, lo scelse per custode del Verbo disceso sopra la terra. D’altronde la professione di artigiano, che in sé ha nulla di abbietto, era in grande onore presso il popolo d’Israele. Anzi, ciascun israelita era artigiano, perché ogni padre di famiglia, qualunque fosse la sua fortuna e l’altezza del suo grado, era obbligato a far imparare un mestiere al figliuolo a meno che, diceva la legge, ne avesse voluto fare un ladro.
Ben poche cose noi sappiamo circa l’infanzia e la gioventù di Giuseppe. Nella stessa guisa che l’indiano per trovare l’oro, che deve formare la sua fortuna, è obbligato a lavare la sabbia del fiume onde estrarne il prezioso metallo che non s’incontra se non in piccolissime particelle, così siamo noi costretti a cercare nel Vangelo quelle poche parole che qua e là ci lasciò sparse lo Spirito Santo intorno a Giuseppe. Ma come l’indiano lavando il suo oro gli dà tutto il suo splendore, così riflettendo sulle parole del Vangelo noi troviamo appropriato a s. Giuseppe il più bello elogio che possa essere fatto di una creatura. Il santo libro si contenta di dirci che era un uomo giusto. Oh ammirabile parola che esprime da sé sola ben più che intieri discorsi! Giuseppe era un uomo giusto, ed in grazia di questa giustizia egli doveva esser giudicato degno del sublime ministero di padre putativo di Gesù.
I suoi pii genitori ebbero cura di educarlo alla pratica austera dei doveri della religione Giudaica. Conoscendo quanto la primitiva educazione influisca sull’avvenire dei figliuoli, si adoperarono di fargli amare e praticare la virtù appena la sua giovane intelligenza fu capace di apprezzarla. Del resto se è vero che la beltà morale si rifletta sull’esteriore, bastava dar uno sguardo alla cara persona di Giuseppe per leggere sui suoi lineamenti il candore dell’anima sua. Secondo ciò che ne tramandarono scrittori autorevoli il suo viso, la sua fronte, i suoi occhi, l’insieme tutto del suo corpo spiravano la più dolce purità e lo facevano rassomigliare ad un angelo disceso sopra la terra.
(«Era in Giuseppe un esimio pudore, una modestia, una prudenza somma, era eccellente nella pietà verso Dio e splendeva d’una meravigliosa bellezza di corpo.» Eusebio di Cesarea, lib. 7 De praep. Evang. apud Engelgr. in Serm. s. Joseph.)
Capo II. Gioventù di Giuseppe – Si trasferisce a Gerusalemme – Voto di castità.
Bonum est viro cum portaverit iugum ab adolescentia sua. (Buona cosa è per l’uomo l’aver portato il giogo fin dalla sua adolescenza. – Lam. 3,27)
Appena le forze glielo permisero, Giuseppe aiutò suo padre nei suoi lavori. Egli apprese il mestiere di legnaiolo, il quale, secondo la tradizione, era altresì il mestiere del padre. Quanta applicazione, quanta docilità dovette egli usare in tutte le lezioni che riceveva dal padre!
Il suo tirocinio finiva appunto allora quando Iddio permise che gli venissero tolti dalla morte i genitori. Egli pianse coloro i quali avevano avuto cura della sua infanzia; ma sopportò questa dura prova colla rassegnazione d’un uomo il quale sa che tutto non termina con questa vita mortale e che i giusti sono ricompensati in un mondo migliore. Ormai da nulla essendo egli ritenuto a Betlemme, vendette le sue piccole proprietà, e andò a stabilirsi in Gerusalemme. Sperava di trovarvi maggior lavoro che nella città natia. D’altronde si avvicinava al tempio ove la sua pietà continuamente lo attirava.
Colà passò Giuseppe i più begli anni di sua vita tra il lavoro e la preghiera. Dotato d’una probità perfetta, non cercava di guadagnare più di quello che meritasse l’opera sua, ne fissava il prezzo egli stesso con una ammirabile buona fede, e giammai i suoi avventori erano tentati di fargli qualche diminuzione, perché conoscevano la sua onestà. Sebbene fosse tutto intento al lavoro, egli non mai permetteva al suo pensiero di allontanarsi da Dio. Ah! se si sapesse imparare da Giuseppe quest’arte così preziosa di lavorare e di pregare ad un tempo, si farebbe senza fallo un doppio guadagno; si verrebbe così ad assicurare la vita eterna guadagnandosi il pane quotidiano con assai maggior soddisfazione e profitto!
Secondo le più rispettabili tradizioni Giuseppe apparteneva alla setta degli Esseni, setta religiosa, la quale esisteva nella Giudea all’epoca della conquista che ne fecero i romani. Gli Esseni professavano una austerità maggiore degli altri Giudei. Le loro principali occupazioni erano lo studio della legge divina e la pratica del lavoro e della carità, e in generale si facevano ammirare per la santità della loro vita. Giuseppe, la cui anima pura aveva in orrore la più leggiera immondezza, si era aggregato ad una classe del popolo, le cui regole sì bene corrispondevano alle aspirazioni del suo cuore; aveva anzi, come dice il venerabile Beda, fatto un voto formale di perpetua castità. E ciò che ci conferma in codesta credenza si è l’asserzione di s. Girolamo, il quale ci dice che Giuseppe non si era mai curato del matrimonio prima di diventare lo sposo di Maria.
Per questa via oscura e nascosta Giuseppe si preparava, a sua insaputa, alla sublime missione che Dio gli aveva riserbato. Senz’altra ambizione che quella di compiere fedelmente la volontà divina, viveva lontano dai rumori del mondo, dividendo il suo tempo tra il lavoro e la preghiera. Tale era stata la sua gioventù, tale altresì, a suo credere, desiderava trascorrere la sua vecchiaia. Ma Iddio, che ama gli umili, altre cure serbava pel suo fedele servo.
Capo III. Matrimonio di s. Giuseppe.
Faciamus ei adiutorium simile sibi. (Facciamo all’uomo un aiuto che a lui rassomigli. – Gen. 2,18)
Giuseppe entrava nel suo cinquantesimo anno, allorché Dio lo tolse alla pacifica esistenza che egli menava a Gerusalemme. Era nel tempio una giovane Vergine dai suoi genitori consacrata al Signore sin dalla sua infanzia.
Della stirpe di Davide essa era figlia dei due santi vecchi Gioachino ed Anna, e si chiamava Maria. Suo padre e sua madre erano morti da parecchi anni, ed il carico della sua educazione era rimasto tutto intiero ai sacerdoti d’Israele. Quando essa ebbe raggiunta l’età di quattordici anni, età fissata dalla legge pel matrimonio delle giovani donzelle, il gran Pontefice si occupò di procurare a Maria uno sposo degno della sua nascita e della sua alta virtù. Ma un ostacolo si presentava; Maria aveva fatto voto al Signore della sua verginità.
Ella rispose rispettosamente alle fatte proposizioni che avendo ella emesso il voto di verginità, non poteva rompere le sue promesse per maritarsi. Questa risposta sconcertò di molto le idee del gran Sacerdote.
Non sapendo in qual maniera conciliare il rispetto dovuto ai voti fatti a Dio coll’usanza mosaica che imponeva il matrimonio a tutte le donzelle d’Israele, radunò gli anziani e consultò il Signore ai piedi del tabernacolo dell’alleanza. Ricevute le inspirazioni dal Cielo e convinto che si nascondeva in quella questione qualche cosa di straordinario, il gran Sacerdote risolse di convocare i numerosi congiunti di Maria, onde scegliere tra di loro colui che doveva essere lo sposo fortunato della Vergine benedetta.
Tutti i celibi adunque della famiglia di Davide furono chiamati al tempio. Giuseppe, sebbene più vecchio, si trovava con essi. Il Sommo Sacerdote avendo annunziato loro che si trattava di gettar le sorti per dare uno sposo a Maria, e che la scelta sarebbe fatta dal Signore, ordinò che tutti si trovassero al sacro tempio il giorno seguente con una verga di mandorlo. La verga si sarebbe deposta sull’altare, e quegli la cui verga fosse fiorita, sarebbe stato il favorito dall’Altissimo ad essere il consorte della Vergine.
Un numeroso stuolo di giovani si trovo il giorno seguente al tempio col suo ramoscello di mandorlo, e Giuseppe con essi; ma sia per spirito di umiltà, sia pel voto che aveva fatto di verginità, invece di presentare il suo ramo se lo nascose sotto il manto. Furono posti tutti gli altri rami sulla mensa, uscirono i giovani col cuore pieno di speranza, e Giuseppe tacito e raccolto con loro. Si chiuse il tempio ed il Sommo Sacerdote rimandò l’adunanza al domani. Era appena spuntato il nuovo sole, che già la gioventù era impaziente di sapere il proprio destino.
Giunto il momento stabilito si aprono le sacre porte e si presenta il Pontefice. Tutti si affollano per vedere l’esito della cosa. Nessuna verga era fiorita.
Il Sommo Sacerdote prostratosi colla faccia a terra davanti al Signore, lo interrogo della sua volontà, e se per sua poca fede, ovvero per non aver compreso la sua voce, non era apparso nei rami il segno promesso. E Dio rispose non essere avvenuto il segno promesso perché tra quelle tenere verghe mancava il ramoscello di quel solo che si voleva dal Cielo; cercasse e vedrebbe avverato il segno. Tosto si fece ricerca di chi avesse sottratto il ramo.
Il silenzio, il casto rossore che imporporò le guance di Giuseppe, tradì tosto il suo segreto. Condotto davanti al santo Pontefice, confessò la verità: ma il Sacerdote intravide il mistero e tratto Giuseppe in disparte, lo interrogò perché avesse così disobbedito.
Giuseppe umilmente rispose, aver avuto in animo di tener da sé lontano quel pericolo; avere da lungo tempo fisso in cuor suo di non unirsi in matrimonio con veruna donzella, e parergli che Dio medesimo al santo proposito l’abbia confortato, riconoscere d’altronde sé stesso troppo indegno d’una così santa fanciulla, come sapeva essere Maria; perciò ad altro più santo è più ricco si concedesse.
Cominciò allora il sacerdote ad ammirare il santo consiglio di Dio, ed a Giuseppe senza più soggiunse: Sta di buon animo, o figliuolo: deponi pur come gli altri il tuo ramoscello ed aspetta il divino giudizio. Certo se egli ti elegge, ritroverai in Maria cotanto di santità e di perfezione sopra tutte le altre donzelle che non dovrai usar preghiere a persuaderla del tuo proposito. Anzi Ella stessa ti pregherà di quel medesimo che tu vuoi, e ti chiamerà fratello, custode, testimonio, sposo, ma non mai marito.
Giuseppe rassicurato della volontà del Signore dalle parole del sommo Pontefice depose il suo ramo cogli altri e si ritirò in santo raccoglimento a pregare.
L’indomani era di nuovo congregata la radunanza intorno al Sommo Sacerdote, ed ecco sul ramo di Giuseppe sbucciati fiori candidi e spessi colle foglie tenere e molli.
Il Sacerdote mostrò ogni cosa agli accorsi giovani, ed annunciò loro che Dio aveva eletto per sposo di Maria, figliuola di Gioachino, Giuseppe figliuolo di Giacobbe ambedue della casa e della famiglia di Davide. Nel tempo stesso si intese una voce che diceva: «O mio fedele servitore Giuseppe! a te è riservato l’onore di sposare Maria, la più pura di tutte le creature; conformati a tutto ciò che Ella ti dirà.»
Giuseppe e Maria riconoscendo la voce dello Spirito Santo accettarono questa decisione ed acconsentirono ad un matrimonio, che non doveva portar nocumento alla loro verginità.
Al dire di s. Girolamo gli sponsali si celebrarono lo stesso giorno colla più grande semplicità.
Una tradizione della Storia del Carmelo ci racconta che fra la gioventù radunata per quella occasione si trovava un bel giovane nobile e vivace che aspirava ardentemente alla mano di Maria. Quando vide fiorito il ramo di Giuseppe e svanite le sue speranze rimase attonito e senza sentimento. Ma in quel tramestio d’affetti lo Spirito Santo scese dentro di lui e gli cambio d’un tratto il cuore. Alza il volto, scuote l’inutile ramo e con insolito fuoco: «Io, disse, non era per Lei. Ella non era per me. Ed io non sarò d’altra giammai. Sarò di Dio.» Spezzò il ramo e lo caccio da sé dicendo: Vada con te ogni pensiero di nozze. Al Carmelo, al Carmelo coi figli di Elia. Quivi avrò la pace che ormai mi sarebbe nella città impossibile. Ciò detto andò al Carmelo e domandò di essere anche accettato tra i figli dei Profeti. Venne accettato, vi fece rapidi progressi in spirito ed in virtù e divenne profeta. Egli è quel Agabo che a s. Paolo apostolo predisse i vincoli e la prigione. Egli prima di tutti fondò sul Carmelo un santuario a Maria. La chiesa santa ne celebra la memoria nei suoi fasti, e i figli del Carmelo l’hanno per fratello.
Giuseppe, tenendo per mano l’umile Vergine, si presentò davanti ai sacerdoti accompagnato da alcuni testimoni. Il modesto artigiano offerse a Maria un anello d’oro, ornato d’una pietra d’amatista, simbolo di verginale fedeltà, e nel tempo stesso le diresse le parole sacramentali: «Se tu acconsenti a divenire la mia sposa, accetta questo pegno.» Maria accettandolo fu solennemente legata a Giuseppe ancorché le cerimonie pel matrimonio non fossero ancora state celebrate.
Questo anello offerto da Giuseppe a Maria si conserva ancora in Italia nella città di Perugia, alla quale, dopo molte vicissitudini e controversie fu definitivamente accordato da Papa Innocenzo VIII nel 1486.
Capo IV. Giuseppe ritorna in Nazaret colla sua sposa.
Erant cor unum et anima una. (Erano un sol cuore ed un’anima sola. – At. 4,32)
Celebrati gli sponsali, Maria ritornò a Nazareth sua patria con sette vergini che il gran Sacerdote le aveva accordato per compagne.
Ella doveva attendere nella preghiera la cerimonia del matrimonio, e formare il suo modesto corredo di nozze. S. Giuseppe rimase a Gerusalemme per preparare la sua abitazione e disporre ogni cosa per la celebrazione del matrimonio.
Dopo qualche mese secondo le usanze della nazione giudaica vennero celebrate le cerimonie che dovevano succedere agli sponsali. Benché poveri entrambi, Giuseppe e Maria diedero a questa festa tutta quella maggior pompa che loro permisero i pochi mezzi di cui potevano disporre, Maria allora abbandonò la propria abitazione di Nazareth e venne ad abitare collo sposo a Gerusalemme, dove si dovevano celebrare le nozze.
Un’antica tradizione ci dice che Maria arrivò a Gerusalemme in una fredda sera d’inverno e che la luna spandeva luminosi sopra la città i suoi raggi d’argento.
Giuseppe si fece all’incontro della sua giovane compagna sino alle porte della città santa seguito da una lunga processione di congiunti, aventi ciascuno una torchia in mano. Il corteggio nuziale condusse i due sposi fino alla casa di Giuseppe, dove da lui era stato preparato il festino di nozze.
Entrando nella sala del banchetto e mentre i convitati prendevano il posto loro assegnato a tavola, il patriarca avvicinandosi alla santa Vergine, «Tu sarai come mia madre, le disse, ed io ti rispetterò come l’altare stesso di Dio vivente.» D’ allora in poi, dice un dotto scrittore, essi non furono più agli occhi della legge religiosa che fratello e sorella nel matrimonio, benché la loro unione fosse integralmente conservata. Giuseppe non si trattenne lungamente a Gerusalemme dopo le cerimonie nuziali; i due santi sposi lasciarono la città santa per recarsi a Nazareth nella modesta casa che Maria aveva avuto in eredità dai suoi genitori.
Nazareth, il cui nome ebraico significa fiore dei campi, è una bella e piccola città, pittorescamente assisa sul pendio d’una collina alla estremità della valle di Esdrelon. È dunque in questa ridente città che Giuseppe e Maria vennero a stabilire la loro dimora.
La casa della Vergine si componeva di due camere principali, di cui l’una serviva di laboratorio per Giuseppe, e l’altra era per Maria. La bottega, dove lavorava Giuseppe, consisteva in una camera bassa di dieci o dodici piedi di larghezza sopra altrettanti di lunghezza. Vi si vedevano distribuiti con ordine gli strumenti necessari alla sua professione. Quanto al legname di cui egli aveva bisogno, una parte rimaneva nel laboratorio e l’altra fuori, permettendo il clima al santo operaio di lavorare all’aperto una gran parte dell’anno.
Sul davanti della casa si trovava, giusta l’uso d’oriente, una panca in pietra ombreggiata da stuoie di palma, dove il viaggiatore poteva riposare le sue stanche membra e ripararsi dai raggi cocenti del sole.
Era assai semplice la vita che menavano codesti sposi privilegiati. Maria curava la pulitezza della sua povera dimora, lavorava colle proprie mani le sue vesti e racconciava quelle del suo sposo. Quanto a Giuseppe ora formava un tavolo per i bisogni di casa, o dei carri, o dei gioghi per i vicini da cui ne aveva ricevuto l’incarico; ora col suo braccio tuttora vigoroso si recava sulla montagna ad abbattere gli alti sicomori ed i neri terebinti che dovevano servire alla costruzione delle capanne, che egli elevava nella vallata.
Sempre assiduo al lavoro bene spesso il sole era di già da lunga pezza tramontato quando egli rientrava in casa pel piccolo pasto della sera, che la sua giovane e virtuosa compagna non gli faceva al certo aspettare, anzi ella stessa gli rasciugava la fronte molle di sudore, gli presentava l’acqua tiepida che ella aveva fatto riscaldare per lavargli i piedi, e gli serviva la cena frugale che doveva ristorare le sue forze. Questa si componeva per lo più di piccoli pani d’orzo, di latticini, di frutti e di alcuni legumi. Poscia, fatta la notte, un parco sonno preparava il nostro santo Patriarca a riprendere il domani le sue giornaliere occupazioni. Questa vita laboriosa e dolce ad un tempo, durava da circa due mesi, quando giunse l’ora segnata dalla Provvidenza per l’incarnazione del Verbo divino.
Capo V. L’Annunciazione di Maria SS.
Ecce ancilla Domini; fiat mihi secundum verbum tuum. (Ecco l’ancella del Signore; si faccia di me secondo la tua parola. – Lc. 1,38)
Un giorno Giuseppe si era recato a lavorare in un paese vicino. Maria era sola in casa e secondo la sua abitudine pregava stando occupata a filare del lino. All’improvviso un angelo del Signore, l’arcangelo Gabriele, discese in questa povera casa tutto risplendente dei raggi della gloria celeste, e salutò l’umile Vergine dicendole: «Io ti saluto, o piena di grazie; il Signore è con te, tu sei benedetta tra tutte le donne.» Questi elogi tanto inaspettati produssero nell’anima di Maria una profonda turbazione. L’Angelo per rassicurarla, le disse: «Non temere, o Maria; poiché hai trovato grazia agli occhi di Dio. Ecco che concepirai e darai alla luce un figlio che si chiamerà Gesù. Egli sarà grande e sarà detto Figlio dell’Altissimo. Il Signore gli darà il trono di Davide suo padre; egli regnerà eternamente nella casa di Giacobbe, ed il suo regno non avrà fine.» «Come ciò sarà possibile, domandò l’umile Vergine, mentre io non conosco uomo?»
Ella non sapeva conciliare la sua promessa di verginità col titolo di madre di Dio. Ma l’Angelo le rispose: «Lo Spirito Santo discenderà in te, e la virtù dell’Altissimo ti coprirà colla sua ombra; il santo frutto che nascerà da te, sarà chiamato il figlio di Dio.» E per darle una prova della onnipotenza di Dio, l’arcangelo Gabriele soggiunse: «Ecco che Elisabetta tua cugina ha concepito un figlio nella sua vecchiaia, e quella che era sterile è di già al sesto mese della sua gravidanza. Perché nulla è impossibile a Dio.»
A queste divine parole l’umile Maria non trovò più che ridire: «Ecco l’ancella del Signore, rispose all’Angelo, sia fatto di me secondo la tua parola.» L’Angelo disparve; il mistero dei misteri era compiuto. Il Verbo di Dio si era incarnato per la salute degli uomini.
Verso la sera, allorché Giuseppe all’ora solita rientrò, terminato il suo lavoro, Maria nulla gli disse del miracolo di cui ella era stata l’oggetto.
Si contentò di annunziargli la gravidanza di sua cugina Elisabetta: e siccome ella desiderava di andarla a visitare, da sposa sottomessa domandò a Giuseppe il permesso di intraprendere quel viaggio che a dir vero era lungo e faticoso. Questi nulla aveva a rifiutarle ed ella parti in compagnia di alcuni congiunti. È da credere che Giuseppe non potesse accompagnarla presso sua cugina, perché lo ritenevano a Nazaret le sue occupazioni.
Capo VI. Inquietudine di Giuseppe – È rassicurato da un Angelo.
Ioseph, fili David, noli timere accipere Mariam coniugem tuam, quod enim in ea natum est, de Spiritu Sancto est. (Giuseppe, figliuolo di Davide, non temere di ricevere Maria tua consorte: perché ciò che in essa è stato concepito è per opera dello Spirito Santo. – Mt. 1,20)
S. Elisabetta abitava nelle montagne della Giudea, in una piccola città chiamata Ebron, posta a settanta miglia [113 km] da Nazareth. Noi non terremo dietro a Maria nel suo viaggio, ci basti il sapere che Maria restò tre mesi circa colla sua cugina.
Ma il ritorno di Maria preparava a Giuseppe una prova che doveva essere il preludio di molte altre. Egli non tardò ad accorgersi che Maria era in uno stato interessante e quindi veniva tormentato da mortali inquietudini. La legge lo autorizzava ad accusare la sua sposa davanti ai sacerdoti e a coprirla di un eterno disonore; ma un simile passo ripugnava alla bontà del suo cuore, e all’alta stima che fino allora aveva avuto per Maria. In questa incertezza risolse di abbandonarla e di espatriare per rigettare unicamente sopra di sé tutta l’odiosità di una tale separazione. Anzi, aveva fatto già i suoi preparativi per la partenza, quando un angelo discese dal Cielo per rassicurarlo:
«Giuseppe, figliuolo di Davide, gli disse il celeste messaggero, non temere di ricevere Maria per tua consorte, perché ciò che in essa è stato concepito è per opera dello Spirito Santo. Ella partorirà un figliuolo cui tu porrai nome Gesù, perché lui libererà il suo popolo dai suoi peccati.
D’allora in poi Giuseppe rassicurato completamente concepì la più alta venerazione per la sua casta sposa; egli vide in essa il tabernacolo vivente dell’Altissimo, e le sue cure non furono che più tenere e più rispettose.
Capo VII. Editto di Cesare Augusto. – Il censo. – Viaggio di Maria e di Giuseppe verso Betlemme.
Tamquam aurum in fornace probavit electos Dominus. (Dio ha provato gli eletti come l’oro nella fornace. – Sap. 3,6.)
Si avvicinava il momento in cui il Messia promesso alle genti doveva finalmente comparire nel mondo. L’impero Romano era allora arrivato all’apice della sua grandezza.
Cesare Augusto impadronendosi del supremo potere, realizzava quella unità che secondo i disegni della Provvidenza doveva servire alla propagazione del Vangelo. Sotto il suo regno avevano cessato tutte le guerre, e il tempio di Giano era chiuso (era uso in Roma a quei tempi di tener aperto il tempio di Giano durante la guerra e di chiuderlo in tempo di pace). Nel suo orgoglio, il romano imperatore volle conoscere il numero dei suoi sudditi, e a questo scopo ordinò un censimento generale in tutto l’impero.
Ciascun cittadino doveva far inscrivere nella sua città nativa sé stesso e tutta la sua famiglia. Dovette adunque Giuseppe abbandonare la sua povera casa per obbedire agli ordini dell’imperatore; e siccome egli era della stirpe di Davide e questa illustre famiglia era originaria di Betlemme, colà doveva andare per farsi inscrivere.
Era una mattina trista e nebbiosa del mese di dicembre, l’anno 752 di Roma, Giuseppe e Maria lasciavano la loro povera abitazione di Nazareth per recarsi a Betlemme, dove li chiamava l’obbedienza dovuta agli ordini del sovrano. Non furono lunghi i loro preparativi per la partenza. Giuseppe mise dentro ad un sacco alcuni vestimenti, preparò la tranquilla e mansueta cavalcatura, che doveva portare Maria che era già nel nono mese di sua gravidanza, e si avviluppò nel suo largo mantello. Poscia i due santi viaggiatori uscirono da Nazareth accompagnati dalle felicitazioni de loro congiunti ed amici. Il santo patriarca, avendo da una mano il suo bastone da viaggio, teneva coll’altra la briglia del giumento su cui stava assisa la sua consorte.
Dopo quattro o cinque giorni di cammino scorsero da lontano Betlemme. Il giorno cominciava a venir meno quando entrarono nella città. La cavalcatura di Maria era stanca; Maria d’altronde aveva un grande bisogno di riposo: perciò Giuseppe si mise sollecitamente in cerca di alloggio. Egli percorse tutte le osterie di Betlemme, ma furono inutili i suoi passi. Il censimento generale vi aveva attirata una folla straordinaria; e tutti gli alberghi riboccavano di forestieri. Invano Giuseppe andò a battere di porta in porta domandando ricovero per la sua sposa estenuata dalla fatica, che le porte rimasero chiuse.
Capo VIII. Maria e Giuseppe si rifugiano in una povera grotta. – Nascita del Salvator del mondo. – Gesù adorato dai pastori.
Et Verbum caro factum est. (Ed il Verbo si è fatto carne. – Gv. 1,14.)
Un po’ scoraggiati dalla mancanza di ogni ospitalità, Giuseppe e Maria se ne uscirono da Betlemme speranzosi di trovare nella campagna quell’asilo che la città loro aveva rifiutato. Arrivarono essi presso ad una grotta abbandonata, la quale offriva un rifugio ai pastori ed ai loro armenti di notte e nei giorni di cattivo tempo. Giaceva in terra un po’ di paglia, ed una incavatura praticata nella roccia serviva egualmente di panca per riposarsi, e di mangiatoia per gli animali. I due viaggiatori entrarono nella grotta onde prendere riposo dalle fatiche del viaggio, e per riscaldare le loro membra intirizzite dal freddo dell’inverno. In questo miserabile riparo, lungi dagli sguardi degli uomini, Maria dava al mondo il Messia ai nostri primi padri promesso. Era la mezzanotte, Giuseppe adorando il divino fanciullo lo inviluppò con pannicelli, e lo pose entro alla mangiatoia. Egli era il primo degli uomini cui toccasse l’incomparabile onore di offrire i propri omaggi a Dio disceso sopra la terra per riscattare i peccati dell’umanità.
Alcuni pastori guardavano le loro greggi nella vicina campagna. Un angelo del Signore comparve e loro annunziò la buona novella della nascita del Salvatore. Nel tempo stesso si udirono dei cori celesti a ripetere: «e Gloria a Dio nel più alto dei Cieli e pace sulla terra agli uomini di buona volontà.» Questi uomini semplici non esitarono a seguire la voce dell’angelo, «Andiamo, si dissero, sino a Betlemme e vediamo ciò che è accaduto.» E senza fare maggiori indugi entrarono nella grotta ed adorarono il divino fanciullo.
(continua)
Vita di san Giuseppe, sposo di Maria Santissima, padre putativo di Gesù Cristo (1/3)
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