(continuazione dall’articolo precedente)
Capo IX. La Circoncisione.
Et vocavit nomen eius Iesum. (E gli pose nome Gesù. – Mt. 1,25)
L’ottavo giorno dopo la nascita si dovevano circoncidere i figliuoli d’Israele per espresso comando da Dio fatto ad Abramo, affinché vi fosse un segno che ricordasse al popolo l’alleanza da Dio giurata con lui.
Maria e Giuseppe intendevano molto bene che tal segno non era per nulla necessario a Gesù. Questa dolorosa funzione era una pena che conveniva ai peccatori, ed aveva per scopo di cancellare il peccato originale. Ora Gesù essendo il santo per eccellenza, il fonte d’ogni santità non portava con sé alcun peccato che abbisognasse remissione. D’altronde egli era venuto al mondo per miracoloso concepimento, e non aveva da sottostare a veruna delle leggi che riguardavano gli uomini. Tuttavia Maria e Giuseppe ben sapendo che Gesù non era venuto a sciogliere la legge, ma ad adempierla; che veniva per recare agli uomini l’esempio della perfetta obbedienza, disposto a soffrire tutto ciò che la gloria del Padre Celeste e la salute degli uomini gli avrebbe imposto, non ristettero dal compiere sul Divino fanciullo la penosa cerimonia.
Giuseppe il santo Patriarca è il ministro ed il sacerdote di quel sacro rito. Eccolo che cogli occhi molli di pianto dice a Maria: «Maria, ora è tempo che ci accingiamo a compiere in questo benedetto tuo figliuolo il segnacolo di nostro padre Abramo. Io mi sento perdere il cuore nel pensarvi. Io metter il ferro in queste carni immacolate! Io trarre il primo sangue di questo agnello di Dio; oh se tu aprissi la bocca, o bambino mio, e mi dicessi che non vuoi la ferita, oh come lancerei lontano da me questo coltello, e godrei che tu non la volessi! Ma io vedo che tu mi domandi questo sacrificio; che vuoi patire. Sì, o bambino dolcissimo, noi patiremo: tu nella tua carne mondissima; Maria ed io nei nostri cuori.»
Giuseppe intanto aveva compiuto il doloroso uffizio offrendo a Dio quel primo sangue in espiazione dei peccati degli uomini. Poi con Maria lacrimosa e piena d’affanno pel patimento del suo Figliuolo aveva ripetuto: «Gesù è il suo nome, perché Egli deve salvare il suo popolo dai suoi peccati: vocabis nomen eius Iesum; ipse enim salvum faciet populum suum a peccatis eorum. – Mt. 1,25» O nome santissimo! o nome sopra ogni nome! quanto convenientemente in questo momento tu sei per la prima volta pronunciato! Dio volle che il bambino venisse chiamato Gesù allora quando incomincerebbe a sparger sangue, perché se egli era e sarebbe Salvatore, ciò era appunto in virtù e per effetto del suo sangue, per cui entrò nel santo dei santi una volta sola e col sacrificio di tutto sé stesso consumava la Redenzione d’Israele e di tutto il mondo.
Giuseppe fu quel grande e nobile ministro della Circoncisione per cui si diede al Figliuol di Dio il suo proprio nome. Giuseppe ne ricevé la relazione dall’angelo, Giuseppe lo pronuncio il primo fra gli uomini, e al pronunziarlo fece che gli angeli tutti s’incurvassero, e che i demoni sorpresi da straordinario spavento, anche senza intendere il perché, cadessero adorando e si nascondessero nel più profondo dell’inferno. Gran dignità di Giuseppe! Grande obbligazione di ossequio che noi gli abbiamo per aver egli il primo chiamato Redentore il Figliuolo di Dio, ed egli il primo aver cooperato col santo ministerio della circoncisione a farcelo Redentore.
Capo X. Gesù adorato dai Magi. La Purificazione.
Reges Tharsis et insulae munera offerent, Reges Arabum et Saba dona adducent. (I re di Tarsis e le isole a lui faranno le loro offerte, i re degli arabi e di Saba porteranno i loro doni. – Ps. 71,10)
Quel Dio che era disceso sulla terra per far della casa d’Israele e delle genti disperse una sola famiglia voleva intorno alla sua culla i rappresentanti dell’uno e dell’altro popolo. I semplici e gli umili avevano avuto la preferenza nel trovarsi attorno a Gesù: i grandi peraltro ed i sapienti della terra non dovevano esserne esclusi. Dopo i pastori vicini, Gesù dal silenzio della sua grotta di Betlemme moveva una stella del Cielo a ricondurvi adoratori lontani.
Una tradizione popolarissima in tutto l’Oriente e registrata nella Bibbia, annunziava che un fanciullo nascerebbe in Occidente, il quale cangerebbe la faccia del mondo, e che un nuovo astro doveva in pari tempo comparire e segnare questo avvenimento. Or bene all’epoca della nascita del Salvatore vi erano all’estremità dell’Oriente alcuni principi detti comunemente i tre Re Magi, dotati di una scienza straordinaria.
Profondamente versati nelle scienze astronomiche, questi tre magi aspettavano con ansietà l’apparizione della nuova stella che doveva loro annunziare la nascita del meraviglioso fanciullo.
Una notte mentre questi osservavano il cielo attentamente, un astro d’insolita grandezza pareva distaccarsi dalla volta celeste, come se avesse voluto discendere sopra la terra.
Riconoscendo a questo segnale che il momento era giunto, frettolosamente se ne partirono, e guidati sempre dalla stella giunsero a Gerusalemme. La fama del loro arrivo e sopra tutto la causa, che li conduceva, turbò il cuore dell’invidioso Erode. Questo principe crudele fece venire a sé i Magi e disse loro: «Pigliate esatte informazioni di questo fanciullo, ed appena l’avrete trovato, ritornate ad avvertirmene affinché io pure vada ad adorarlo.» I dottori della legge avendo indicato che il Cristo doveva nascere in Betlemme; i Magi uscirono da Gerusalemme preceduti sempre dalla misteriosa stella. Non tardarono ad arrivare a Betlemme; la stella si arrestò al disopra della grotta dove stava il Messia. I Magi vi entrarono, si prostrarono ai piedi del fanciullo e l’adorarono.
Aprendo allora i cofanetti di legni preziosi che con sé avevano portato, gli offrirono dell’oro come per riconoscerlo re, dell’incenso come Dio e della mirra come uomo mortale.
Avvisati poscia da un angelo dei veri disegni di Erode, senza passare per Gerusalemme, ritornarono direttamente ai loro paesi.
Si avvicinava il quarantesimo giorno dalla nascita del Santo Bambino: la legge di Mosè prescriveva che ogni primogenito venisse portato al tempio per essere offerto a Dio e quindi consacrato, e per essere purificata la madre. Giuseppe in compagnia di Gesù e di Maria moveva verso Gerusalemme per compiere la prescritta cerimonia. Offri due tortorelle in sacrificio e pagò cinque sicli d’argento. Poscia avendo fatto inscrivere il figlio sopra le tavole del censo e pagato il tributo, i santi sposi se ne ritornarono in Galilea, a Nazareth loro città.
Capo XI. Il tristo annunzio. – La strage degli innocenti. – La sacra famiglia parte per l’Egitto.
Surge, accipe puerum et matrem eius et fuge in Aegyptum et esto ibi usque dum dicam tibi. (L’angelo del Signore disse a Giuseppe: Levati, prendi il bambino e sua madre e fuggi in Egitto e fermati colà fino che io t’avvisi. – Mt. 2,13)
Vox in excelso audita est lamentationis, luctus, et fletus Rachel plorantis filios suos, et nolentis consolari super eis quia non sunt. (Si è sentito nell’alto voce di querela, di lutto e di gemito di Rachele che piange i suoi figli; e riguardo ad essi non ammette consolazione perché ei più non sono. – Ger. 31,15)
La tranquillità della santa famiglia non doveva essere di lunga durata. Appena Giuseppe era rientrato nella povera casa ai Nazareth, un angelo del Signore gli apparve in sogno e gli disse: «Alzati, togli teco il fanciullo e sua madre e fuggi in Egitto, e rimani colà finché io non ti dica di ritornare. Imperocché Erode cercherà il fanciullo per farlo morire.»
E ciò non era che troppo vero. Il crudele Erode ingannato dai Magi e furioso di vedersi sfuggire una si bella occasione, per disfarsi di colui che egli considerava come un competitore al trono, aveva concepito l’infernale disegno di far massacrare tutti i bambini maschi di età inferiore a due anni. Quest’ ordine abbominevole fu eseguito.
Un largo fiume di sangue scorse la Galilea. Allora si avverò quello che aveva predetto Geremia: «Una voce si è fatta intendere in Rama, voce mista di lacrime e di lamenti. È Rachele che piange i suoi figli e non vuol essere consolata; perché essi non sono più.» Questi poveri innocenti, si crudelmente scannati, furono i primi martiri della divinità di Gesù Cristo.
Giuseppe aveva riconosciuto la voce dell’Angelo; né si permise alcuna riflessione sulla precipitata partenza, a cui dovevano risolversi; sulle difficoltà d’un viaggio così lungo e così pericoloso. E sì che gli doveva rincrescere di abbandonare la sua povera casa, per andare attraverso ai deserti a cercare un asilo in un paese che egli non conosceva. Senza nemmeno aspettare il domani, nel momento che l’angelo disparve egli si alzò e corse a svegliare Maria. Maria preparò frettolosamente piccola provigione di panni e di viveri che dovevano portare con sé. Giuseppe intanto preparò la giumenta, e partirono senza rammarico dalla loro città per obbedire al comando di Dio. Ecco dunque un povero vecchio, che rende vane le orribili trame del tiranno di Galilea; è a lui che Iddio affida la custodia di Gesù e di Maria.
Capo XII. Viaggio disastroso – Una tradizione.
Si persequentur vos in civitate ista, fugite in aliam. (Quando vi perseguiteranno in questa città fuggite ad un’altra. – Mt. 10,23.)
Due strade si presentavano al viaggiatore, che per la via di terra volesse recarsi in Egitto. L’una attraversava deserti popolati da bestie feroci, ed i sentieri ne erano malagevoli, lunghi e poco frequentati. L’altra si dirigeva attraverso a un paese poco frequentato, ma gli abitanti della contrada erano ostilissimi agli Ebrei. Giuseppe, che aveva soprattutto a temere gli uomini in questa fuga precipitosa, scelse la prima di queste due strade siccome la più nascosta.
Partiti da Nazaret nel più fitto della notte, i cauti viaggiatori, il cui itinerario obbligava a passare vicino a Gerusalemme, batterono per qualche tempo i sentieri più tristi e tortuosi. Quando si doveva attraversare qualche grande strada, Giuseppe lasciando al riparo d’una roccia Gesù e sua Madre, andava in perlustrazione pel cammino, per accertarsi se l’uscita non ne fosse guardata dai soldati di Erode. Rassicurato da questa precauzione, ritornava a prendere il suo prezioso tesoro, e la santa famiglia continuava il suo viaggio, tra i burroni ed i colli. Di tratto in tratto si faceva una breve sosta sull’orlo d’un limpido ruscello, e dopo una frugale refezione si prendeva un po’ di riposo dalle fatiche del viaggio. Giunta la sera, era mestieri rassegnarsi a dormire a cielo scoperto. Giuseppe spogliandosi del suo mantello, ne copriva Gesù e Maria per preservarli dall’umidità della notte. Poi il domani sul far del giorno si ricominciava il faticoso viaggio. I santi viaggiatori, avendo oltrepassata la piccola città di Anata, si diressero dalla parte di Ramla per discendere nelle pianure della Siria, dove essi dovevano ormai esser liberi dalle insidie dei loro feroci persecutori. Contro alla loro abitudine avevano continuato a camminare malgrado fosse di già fatta la notte per essere più presto in salvo. Giuseppe andava quasi tastando il terreno avanti agli altri. Maria tutta tremante per questa corsa notturna spostava i suoi sguardi irrequieti nella profondità dei valloni, e nelle sinuosità delle rocce. D’un tratto in uno svolto, una frotta d’uomini armati si presentò ad intercettare loro il cammino. Era una banda di scellerati, i quali devastavano la contrada, la cui fama spaventevole si estendeva molto lontano. Giuseppe aveva arrestato la cavalcatura di Maria, e pregava il Signore in silenzio; perché era impossibile qualunque resistenza. Tutto al più si poteva sperare di ottener salva la vita. Il capo dei briganti si staccò dai suoi compagni e si avanzò verso Giuseppe per osservare con chi avesse egli da trattare. La vista di questo vecchio senza armi, di questo bambinello che dormiva sopra il seno di sua madre, toccò il cuore sanguinario del bandito. Ben lungi dal voler far loro alcun male, stese la mano a Giuseppe, offrendo ospitalità a lui ed alla sua famiglia. Questo capo si chiamava Disma. La tradizione ci dice, che trent’anni dopo egli fu preso dai soldati, e condannato ad essere crocifisso. Fu messo in croce sul Calvario al fianco di Gesù, ed è lo stesso che noi conosciamo sotto il nome del buon ladrone.
Capo XIII. Arrivo in Egitto – Prodigi avvenuti al loro ingresso in questa terra – Villaggio di Matari – Abitazione della sacra Famiglia.
Ecce ascendet Dominus super nubem levem et commovebuntur simulacra Aegypti. (Ecco che il Signore salirà sopra una nuvola leggera ed entrerà in Egitto e alla presenza di lui si conturberanno i simulacri d’Egitto. – Is. 19,1)
Comparso appena il giorno, i fuggitivi, ringraziando i briganti diventati ospiti, ripresero il loro cammino pieno di pericoli. Si dice che Maria sul partire abbia detto queste parole al capo di quei banditi: «Ciò che tu hai fatto per questo bambino, ti sarà un giorno largamente ricompensato.» Dopo di avere attraversato Betlemme e Gaza, Giuseppe e Maria discesero nella Siria e avendo incontrato una carovana che partiva per l’Egitto si unirono ad essa. Da questo istante sino al termine del loro viaggio non videro più davanti a sé, che un immenso deserto di sabbia, la cui aridità non era interrotta che a ben rari intervalli da qualche oasi, ossia da alcuni tratti di terreno fertile e verdeggiante. Le loro fatiche si raddoppiarono durante questa corsa attraverso a queste pianure infuocate da ardente sole. I viveri erano poco abbondanti, e l’acqua ben sovente mancava. Quante notti Giuseppe, che era vecchio e povero, si vide risospinto, quando tentava di avvicinarsi alla fonte, cui la carovana si era arrestata per dissetarsi!
Finalmente dopo due mesi di penosissimo cammino i viaggiatori entrarono in Egitto. Al dire di Sozomeno, dal momento che la santa Famiglia ebbe toccato questa terra antica, gli alberi abbassarono i loro rami per adorare il Figlio di Dio; le bestie feroci vi accorsero dimenticando il loro istinto; e gli uccelli cantarono in coro le lodi del Messia. Anzi se crediamo a quanto ci narrano autori degni di fede, tutti gli idoli della provincia, riconoscendo il vincitore del Paganesimo, caddero frantumati in mille pezzi. Così ebbero letterale compimento le parole del profeta Isaia quando disse; «Ecco che il Signore salirà sopra una nuvola leggerà ed entrerà in Egitto, e alla presenza di lui si conturberanno i simulacri d’Egitto.»
Giuseppe e Maria, desiderosi d’arrivar presto al termine del loro viaggio, non fecero che attraversare Eliopoli, consacrata al culto del sole, per recarsi a Matari dove intendevano di riposarsi delle loro fatiche.
Matari è un bel villaggio ombreggiato da sicomori, a due leghe circa dal Cairo, capitale dell’Egitto. Colà Giuseppe aveva intenzione di stabilire dimora. Ma non era ancora questo il termine delle sue pene. Gli era mestieri di cercarsi un alloggio. Gli Egiziani non erano per nulla ospitali; così la santa famiglia fu costretta a ripararsi per alcuni giorni nel tronco d’un antico e grosso albero. Alfine dopo lunghe ricerche Giuseppe trovò una modesta e piccola camera, in cui collocò alla meglio Gesù e Maria.
Questa casa, che si fa vedere ancora in Egitto, era una specie di grotta, di venti piedi di lunghezza sopra quindici di larghezza. Non vi erano nemmeno finestre; la luce vi doveva penetrare per la porta. Le mura erano d’una specie d’argilla nera e schifosa, la cui vecchiezza portava l’impronta della miseria. A destra era una piccola cisterna, dalla quale Giuseppe attingeva l’acqua pel servizio della famiglia.
Capo XIV. Dolori. – Consolazione e termine dell’esilio.
Cum ipso sum in tribulatione. (Con lui son io nella tribolazione. – Ps. 90,15)
Entrato appena in questa nuova abitazione ripigliò Giuseppe il suo lavoro ordinario. Cominciò a mobiliare la sua casa; un tavolino, qualche sedia, una panca, tutto quanto opera delle sue mani. Poscia andò di porta in porta in cerca di lavoro per guadagnar il sostentamento alla piccola famiglia. Egli senza dubbio ebbe a provare ben molti rifiuti, e a tollerare ben molti umilianti disprezzi! Egli era povero, e sconosciuto; e ciò bastava perché venisse rifiutata l’opera sua. A sua volta Maria, mentre aveva mille cure pel Figlio, si diede coraggiosamente al lavoro, occupando in esso una parte della notte per supplire ai guadagni piccoli ed insufficienti del suo sposo. Tuttavia in mezzo alle sue pene quante consolazioni per Giuseppe! Era per Gesù che lavorava, e il pane che il divino fanciullo mangiava era egli che l’aveva acquistato col sudore della sua fronte. E poi quando rientrava in sulla sera affaticato e oppresso dal caldo, Gesù sorrideva al suo arrivo, e lo accarezzava colle sue piccole mani. Ben sovente col prezzo di privazioni, che s’imponeva, Giuseppe riusciva ad ottenere qualche risparmio qual gioia provava allora nel poterlo impiegare nell’addolcire la condizione del divino fanciullo! Ora erano alcuni datteri, ora alcuni giocattoli adatti alla sua età, che il pio falegname recava al Salvatore degli uomini. Oh quanto erano dolci allora le emozioni del buon vecchio nel contemplare il viso raggiante di Gesù! Quando arrivava il Sabato, giorno di riposo e consacrato al Signore, Giuseppe prendendo per le mani il fanciullo, ne guidava i primi passi con una sollecitudine veramente paterna.
Frattanto il tiranno che regnava sopra Israele moriva. Iddio, il cui braccio onnipotente punisce sempre il colpevole, gli aveva mandato una malattia crudele, che lo condusse rapidamente al sepolcro. Tradito dal suo proprio figlio, roso vivo dai vermi, Erode era morto, portando con sé l’odio dei giudei, e la maledizione dei posteri.
Capo XV. Il nuovo annunzio. – Ritorno in Giudea. – Una tradizione riferita da s. Bonaventura.
Ex Aegypto vocavi filium meum. (Dall’Egitto richiamai il mio figliuolo. – Os. 11,1)
Da sette anni stava Giuseppe in Egitto, quando l’Angelo del Signore, messaggero ordinario dei voleri del Cielo gli apparve di nuovo durante il sonno e gli disse: «Alzati, togli teco il fanciullo e sua madre, e ritorna al paese d’Israele, perché coloro che cercavano il fanciullo per farlo morire, non esistono più.» Sempre pronto alla voce di Dio, Giuseppe vendette la sua casa ed i suoi mobili, ed ordinò il tutto per la partenza. Invano gli Egiziani rapiti dalla bontà di Giuseppe e dalla dolcezza di Maria fecero le più vive istanze per ritenerlo. Invano gli promisero l’abbondanza d’ogni cosa necessaria per la vita, Giuseppe fu irremovibile. I ricordi della sua infanzia, gli amici, che egli aveva nella Giudea, la pura atmosfera della sua patria, assai più parlavano al suo cuore, che non la bellezza dell’Egitto. D’altronde Iddio aveva parlato, e null’altro abbisognava per decidere Giuseppe a far ritorno alla terra dei suoi antenati.
Alcuni storici sono d’opinione che la Santa Famiglia abbia fatto per mare una parte del viaggio, perché vi s’impiegava minor tempo, ed aveva un desiderio grandissimo di rivedere presto la sua patria. Appena sbarcati ad Ascalonia, Giuseppe intese che Archelao era succeduto nel trono a suo padre Erode. Indi per Giuseppe era una nuova sorgente di inquietudini. L’angelo non gli aveva detto in quale parte della Giudea dovesse egli stabilirsi. Doveva ciò fare a Gerusalemme, o nella Galilea, o nella Samaria? Giuseppe pieno d’ansietà pregò il Signore che gli mandasse durante la notte il suo celeste messaggero. L’angelo gli ordinò di fuggire Archelao e di ritirarsi in Galilea. Giuseppe allora più non ebbe a temere, e prese tranquillamente la strada di Nazareth, che aveva sette anni prima abbandonata.
Non dispiaccia ai nostri devoti lettori di sentir sopra questo punto di storia il serafico dottor s. Bonaventura: «Erano in atto di partirsi: e Giuseppe andò innanzi cogli uomini, e la madre veniva da lungi colle donne (venuti queste e quelli come amici della santa famiglia ad accompagnarli un tratto). E quando furono fuori della porta, Giuseppe rattiene gli uomini e non si lascia più accompagnare. Allora alcuno di quelli buoni uomini, avendo compassione della povertà di costoro, chiamò il fanciullo e gli diede alcuni denari per le spese. Si vergogno il Fanciullo di riceverli; ma, per amore della povertà, apparecchiò la mano e ricevé la pecunia vergognosamente e lo ringrazio. E così fecero più persone. Lo chiamarono ancora quelle onorabili matrone e fecero lo stesso; non si vergognava meno la madre che il fanciullo, ma tuttavia umilmente li ringraziò.»
Preso dunque commiato da quella cordiale compagnia rinnovati i ringraziamenti ed i saluti, la santa famiglia rivolse i suoi passi verso la Giudea.
Capo XVI. Arrivo di Giuseppe in Nazareth. – Vita domestica con Gesù e Maria.
Constituit eum dominum domus suae. (Lo costituì padrone della sua casa. – Ps. 104,20)
Erano finalmente terminati i giorni dell’esilio. Giuseppe poteva di nuovo rivedere la sospirata terra nativa, che gli richiamava alla mente le più care memorie. Bisognerebbe amare il proprio paese come lo amavano allora gli ebrei, per comprendere le dolci impressioni che riempivano l’anima di Giuseppe allorquando apparve da lontano la vista di Nazareth. L’umile patriarca accelerò il passo della cavalcatura di Maria, e ben presto arrivarono nelle strette vie della loro cara città.
I Nazareni, i quali ignoravano la causa della partenza del pio operaio, videro con gioia il suo ritorno. I capi di famiglia vennero a dare il benvenuto a Giuseppe, e a stringere la mano del vecchio, la cui testa era incanutita lungi dalla sua patria. Le figlie salutarono l’umile Vergine, la cui grazia era ancora aumentata dalle cure, delle quali ella circondava il suo divino fanciullo. Gesù, il prediletto Gesù vide accorrere presso di sé i ragazzi della sua età, e, per la prima volta, intese il linguaggio dei suoi antenati invece di quello amaro dell’esilio.
Ma il tempo e l’abbandono avevano ridotto la povera abitazione di Giuseppe in pessimo stato. L’erba selvaggia era cresciuta sopra le mura, e la tignola si era impossessata dei vecchi mobili della santa famiglia.
Alcune terre che circondavano la casa furono vendute, e col loro prezzo furono comperate le masserizie più necessarie. Le meschine risorse dei due sposi furono impiegate negli acquisti più indispensabili. Non restavano adunque più a Giuseppe che il suo laboratorio e le sue braccia. Ma la stima che ciascuno sentiva pel santo uomo, la confidenza che si aveva nella sua buona fede come nella sua abilità, fecero sì che a poco a poco gli ritornassero e il lavoro e gli avventori; e il coraggioso falegname ebbe ben presto ripreso il suo consueto lavoro. Era invecchiato nelle fatiche, ma il suo braccio era pur sempre robusto, ed il suo ardore si era ancora accresciuto dopo che si trovava egli incaricato di nutrire il Salvatore degli uomini.
Gesù cresceva in età e sapienza. Nella stessa guisa che Giuseppe aveva guidato i suoi primi passi, quando piccino ancora incominciava a camminare, diede pure a Gesù le prime nozioni di lavoro. Egli teneva la sua piccola mano e la dirigeva nell’insegnargli a tracciare le linee, e a maneggiare la pialla. Egli insegnava a Gesù le difficoltà e la pratica del mestiere. E il Creatore del mondo si lasciava guidare dal suo fedele servitore, che egli si era scelto per padre!
Giuseppe, che era assiduo agli uffizi nel sacro tempio, come era diligente dei doveri del suo lavoro, osservava rigorosamente la legge di Mosè e la religione dei suoi antenati. Così giammai si sarebbe visto lavorare in giorno festivo, egli aveva compreso come non sia di troppo un giorno per settimana onde pregare il Signore e ringraziarlo dei suoi favori. Ogni anno alle tre grandi solennità giudaiche, alle feste di Pasqua, della Pentecoste e dei Tabernacoli, egli si recava al tempio di Gerusalemme in compagnia di Maria. Ordinariamente egli lasciava a Nazareth Gesù, che si sarebbe soverchiamente stancato dal lungo cammino; e soleva sempre pregare qualche suo vicino perché s’incaricasse della custodia del fanciullo nell’assenza dei suoi genitori.
Capo XVII. Gesù va con Maria sua madre e s. Giuseppe a celebrare la Pasqua in Gerusalemme. – È smarrito e ritrovato dopo tre giorni.
Fili, quid fecisti nobis sic? Ecce pater tuus et ego dolentes quaerebamus te. Quid est quod me quaerebatis? Nesciebatis quia in his quae Patris mei sunt oportet me esse? (Figlio, perché ci hai tu fatto questo? Ecco che tuo padre ed io addolorati andavamo di te in cerca; [ed egli disse loro]: Perché mi cercavate voi? Non sapevate che nelle cose spettanti al Padre mio debbo occuparmi? – Lc. 2,48-49)
Quando Gesù ebbe raggiunta l’età di dodici anni, ed approssimandosi le feste di Pasqua, Giuseppe e Maria lo giudicarono abbastanza forte per sopportare il viaggio, e lo condussero con loro in Gerusalemme. Essi rimasero circa sette giorni nella città santa per celebrare la Pasqua e compiere i sacrifici comandati dalla legge.
Terminate le feste pasquali ripresero la strada di Nazareth in mezzo ai loro congiunti ed amici. La carovana era assai numerosa. Nella semplicità dei loro costumi le famiglie di una stessa città o di uno stesso villaggio se ne ritornavano alle case loro riunite in allegre brigate, in cui i vecchi discorrevano gravemente coi vecchi, le donne colle donne, mentre i ragazzi correvano e giuocavano insieme nel loro cammino. Così Giuseppe non vedendo Gesù presso di sé lo credette, come era naturale, presso la madre sua o coi ragazzi di sua età. Maria camminava ella pure in mezzo alle compagne persuasa egualmente che il fanciullo seguisse gli altri. Giunta poi la sera la carovana si arrestò nella piccola città di Machmas per passarvi la notte. Giuseppe venne a ritrovare Maria; ma quale non fu la loro sorpresa ed il loro dolore quando si domandarono reciprocamente dove era Gesù? Né l’uno, né l’altro l’aveva veduto dopo l’uscita dal tempio; i ragazzi dal canto loro non potevano darne alcuna notizia. Egli non era con essi.
Subito Giuseppe e Maria malgrado la loro stanchezza si rimisero in viaggio per Gerusalemme. Rifecero pallidi ed inquieti la strada che avevano di già percorsa lo stesso giorno. Echeggiarono i dintorni delle loro grida di cordoglio; Giuseppe chiamava Gesù, ma Gesù non rispondeva. All’alba del giorno arrivarono a Gerusalemme, dove, dice il vangelo, essi passarono tre giorni intieri in cerca dell’amatissimo figlio. Quanti dolori pel cuore di Giuseppe! E quanto dovette egli rimproverarsi un istante di distrazione! Finalmente verso la fine del terzo giorno questi desolati genitori entrarono nel tempio, piuttosto per invocare i lumi dall’alto, che colla speranza di trovarvi Gesù. Ma quale non fu la loro sorpresa e la loro ammirazione nel vedere il divino fanciullo in mezzo ai dottori meravigliati della saggezza dei suoi discorsi, delle dimande e delle risposte che loro faceva! Maria piena di gioia, perché aveva ritrovato il figlio, non poté tuttavia trattenersi dal manifestargli l’inquietudine che l’aveva afflitta: «Mio figlio, gli disse, perché hai tu fatto così con noi? sono tre giorni da che immersi nel dolore andiamo in cerca di te.» – Gesù rispose: «Perché mi cercavate voi così? Non sapevate che mi è mestieri di occuparmi delle cose che riguardano mio padre?» Il vangelo soggiunge che Giuseppe e Maria non compresero immediatamente questa risposta. Fortunati di aver ritrovato Gesù se ne ritornarono tranquillamente alla loro piccola casa di Nazareth.
Capo XVIII. Seguita della vita domestica della santa famiglia.
Et erat subditus illis. (E Gesù era ad ossi ubbidiente. – Lc. 2,51)
Il santo Vangelo dopo aver raccontato i principali tratti della vita di Gesù fino all’età di dodici anni, giunto a questo punto conchiude tutta la vita privata di Gesù fino a trent’anni in queste brevi parole: «Gesù era obbediente a Maria ed a Giuseppe, et erat subditus illis.» Queste parole, mentre nascondono ai nostri sguardi la gloria di Gesù, rivelano in magnifico aspetto la grandezza di Giuseppe. Se l’educatore d’un principe occupa una dignità onorifica nello stato, quale deve essere la dignità di Giuseppe, mentre fu incaricato della educazione del Figlio di Dio! Gesù cui le forze erano cresciute cogli anni diventò l’allievo di Giuseppe. Egli lo seguiva nelle sue giornate di lavoro, e sotto la sua direzione apprese il mestiere del falegname. S. Cipriano, vescovo di Cartagine, scriveva circa l’anno 250 dell’era cristiana, che si conservavano ancora con venerazione aratri fatti dalla mano del Salvatore. Era senza dubbio Giuseppe che ne aveva dato il modello e che aveva diretto nella sua bottega la mano del Creatore di ogni cosa.
Gesù voleva dare agli uomini l’esempio dell’obbedienza anche nelle più piccole circostanze della vita. Così si fa vedere ancora presso di Nazareth un pozzo, cui Giuseppe mandava il divino fanciullo ad attingere l’acqua pei bisogni della famiglia.
Ci mancano i particolari circa questi anni laboriosi che Giuseppe passò a Nazareth con Gesù e Maria. Ciò che possiamo dire senza timore di ingannarci è che Giuseppe lavorava senza tregua per guadagnar il pane. La sola distrazione che si permetteva era di conversare bene spesso col Salvatore, le cui parole rimanevano profondamente scolpite nel suo cuore.
Agli occhi degli uomini Gesù passava per figlio di Giuseppe. E questi, la cui umiltà era tanto grande quanto l’obbedienza, serbava entro sé stesso il mistero che era incaricato di proteggere colla sua presenza. «Giuseppe, dice Bossuet, vedeva Gesù e taceva; egli lo gustava e non ne parlava; si contentava di Dio solo senza dividere cogli uomini la sua gloria. Compieva la sua vocazione, perché come gli apostoli erano ministri di Gesù Cristo conosciuto, Giuseppe era il ministro ed il compagno della sua vita nascosta.»
Capo XIX. Ultimi giorni di s. Giuseppe. Sua preziosa agonia.
O nimis felix, nimis o beatus Cuius extremam vigiles ad horam Christus et Virgo simul astiterunt Ore sereno! (O beata o felice anima pia, che del tuo esilio nell’estremo istante, godesti al lato di Gesù e Maria il bel sembiante. – La s. Chiesa nell’uffizio di s. Giuseppe).
Giuseppe toccava i suoi ottant’anni, e Gesù non doveva tardare ad abbandonare la sua dimora per ricevere il battesimo da Giovanni Battista, quando Iddio chiamò a sé il suo fedele servitore. Le fatiche ed i travagli d’ogni sorta avevano logorato la tempra robusta di Giuseppe, e sentiva egli stesso che la sua fine era ben prossima. D’altronde la sua missione sulla terra era terminata; ed era giusto che egli ricevesse finalmente la ricompensa che meritavano le sue virtù.
Per un favore affatto speciale un angelo venne ad avvisarlo della sua prossima morte. Egli era pronto a comparire innanzi a Dio. Tutta la sua vita non era stata che una serie di atti d’obbedienza alla volontà divina e poco gl’importava della vita, poiché si trattava d’ubbidire a Dio che lo chiamava alla vita beata. Secondo le testimonianze unanimi della tradizione Giuseppe non morì tra le sofferenze acute della malattia. Si spense dolcemente come una fiamma cui venga meno l’alimento.
Steso sul letto di morte, avendo ai suoi fianchi Gesù e Maria, Giuseppe fu rapito in estasi per ventiquattro ore. I suoi occhi videro allora chiaramente le verità che la sua fede aveva credute sin allora senza comprendere. Egli penetrò il mistero di Dio fatto uomo e la grandezza della missione che Iddio aveva confidato a lui povero mortale. Assistette in spirito ai dolori della passione del Salvatore. Quando si risvegliò, il suo viso era illuminato e come trasfigurato da una beltà tutta celeste. Un profumo delizioso riempì la camera in cui egli giaceva e si sparse anche al di fuori, annunziando così ai vicini del santo uomo che la sua anima si pura e si bella stava per passare in un mondo migliore.
In una famiglia di anime povere e semplici che si amano di quell’amor puro e cordiale che difficilmente si trova in seno alla grandezza ed all’abbondanza, quando queste persone si godettero in santa unione gli anni del pellegrinaggio, e che come ebbero comuni le domestiche gioie, così si divisero i dolori santificati dal conforto religioso, se avvenga che questa bella pace debba offuscarsi per la separazione di un caro membro, oh come si sente allora angoscioso il cuore nel dividersi!
Gesù aveva come Dio un padre in cielo che comunicandogli da tutta l’eternità la sua divina sostanza e natura rendeva perenne alla sua persona sulla terra la celeste gloria (quantunque velata da spoglie mortali); Maria aveva in terra Gesù che le riempiva di paradiso il cuore. Chi tuttavia vorrà negarci che Gesù e Maria trovandosi ora presso al moribondo Patriarca e lasciando anche la tenerezza del loro cuore in balìa della natura non abbiano sofferto nel doversi temporaneamente separare dal compagno fedele del loro pellegrinaggio in terra? Maria non poteva dimenticare i sacrifici, le pene, i disagi, che per essa aveva dovuto soffrire Giuseppe nei penosi viaggi di Betlemme e di Egitto. È vero che Giuseppe trovandosi continuamente in compagnia di Lei veniva compensato di quanto soffriva, ma se questo era un argomento di conforto per l’uno, non era cagione che dispensasse il cuore tenerissimo dell’altra dal sentimento di gratitudine. Giuseppe l’aveva servita non solo con tutto l’affetto d’uno sposo, ma eziandio con tutta la fedeltà d’un servo e l’umiltà d’un discepolo, venerando in Lei la Regina del cielo, la Madre di Dio. Ora a Maria non erano certo sfuggiti dalla mente tanti segni di venerazione, di obbedienza e di stima, e non poteva non sentirne per Giuseppe profonda e verissima riconoscenza.
E Gesù che in fatto di amore non doveva starsi certamente inferiore né all’uno né all’altra, dal momento che aveva disposto nei decreti della sua divina Provvidenza che Giuseppe fosse il suo custode e protettore in terra, dal momento che questa protezione aveva pur dovuto costare a Giuseppe tanti patimenti e tante fatiche, anche Gesù doveva sentir in quel suo cuore amantissimo i più dolci sensi di grata rimembranza. Nel contemplare quelle scarne braccia disposte in croce sull’affannoso petto egli ricordava che quelle si erano tante volte aperte per stringerlo al seno quando vagiva in Betlemme, che si erano stancate a portarlo in Egitto, che si erano logorate sul lavoro per mantenergli il pane della vita. Quante volte quelle care labbra si erano appressate riverenti a stampargli amorosi baci o a scaldargli nell’inverno le intirizzite membra; e quegli occhi, che allora stavano per chiudersi alla luce del giorno, quante volte si erano aperti al pianto, onorando le sofferenze di Lui e di Maria, quando doveva contemplarlo fuggiasco in Egitto, ma specialmente quando per tre giorni lo pianse smarrito in Gerusalemme. Queste prove di amore sviscerato non erano certamente da Gesù dimenticate in quegli estremi istanti di Giuseppe. Quindi mi immagino che Maria e Gesù nello sparger di paradiso quelle ultime ore di vita di Giuseppe avranno eziandio come sulla tomba dell’amico Lazzaro onorato collo sfogo delle più pure lagrime quello estremo solenne saluto. Oh sì che Giuseppe aveva il paradiso innanzi agli occhi! Egli volgeva lo sguardo da un lato e vedeva l’aspetto di Maria, e ne stringeva nelle sue le mani santissime, e ne riceveva le ultime cure, e ne sentiva le parole di consolazione. Volgeva gli occhi dall’altra parte ed incontrava lo sguardo maestoso ed onnipotente di Gesù, e sentiva le sue mani divine sostenergli il capo, e tergere i sudori, e raccoglieva dal suo labbro i conforti, i ringraziamenti, le benedizioni e le promesse. E mi pare che dicesse Maria: «Giuseppe, tu ci abbandoni; tu hai finito la peregrinazione dell’esilio, tu mi precederai nella tua pace, discendendo il primo nel seno di nostro padre Abramo; oh Giuseppe, come ti son grata della soave compagnia, che mi facesti, dei buoni esempi che mi hai dato, della cura che avesti di me e delle cose mie e delle pene gravissime che soffristi per cagione mia! oh tu mi abbandoni, ma vivrai pur sempre nella mia memoria e nel mio cuore. Sta di buon animo, o Giuseppe, quoniam appropinquat redemptio nostra.» E mi pare dicesse Gesù: «Giuseppe mio, tu muori, ma anch’io morrò, e se muoio io tu devi stimare la morte ed amarla come mercede. Breve, o Giuseppe, ha da essere il tempo delle tenebre e dell’aspettazione. Vanne da Abramo e da Isacco i quali bramarono di vedermi e non furono degni; vanne a loro che da molti anni aspettano la mia venuta in quelle tenebre e loro annunzia la prossima liberazione; dillo a Noè, a Giuseppe, a Davide, a Giuditta, a Geremia, ad Ezechiele, di a tutti quei Padri che ancor tre anni dovranno aspettare e poi sarà consumata l’Ostia ed il Sacrificio e scancellata l’iniquità del mondo. Tu intanto dopo questo breve tempo sarai ravvivato e glorioso e bellissimo, e con me più glorioso più bello sorgerai nell’ebbrezza del trionfo. Vanne lieto, caro custode della mia vita, tu fosti buono e generoso per me, ma vincermi di gratitudine non può nessuno.» La santa Chiesa esprime le amorose ultime assistenze di Gesù e di Maria verso s. Giuseppe con queste parole: «Cuius extremas vigiles ad horas Christus et Mater simul astiterunt ore sereno.» Nelle ore estreme di s. Giuseppe con volto sereno assistevano colla più amorevole vigilanza Gesù e Maria.
(continua)