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Arrivo a Patagones e avvio dell’opera
            I primi salesiani impiantarono in modo definitivo la loro missione in Patagonia il 20 gennaio 1880. Accompagnati da monsignor Antonio Espinosa, vicario dell’arcivescovo Federico Aneyros, giunsero a Carmen de Patagones don Giuseppe Fagnano, don Emilio Rizzo, don Luigi Chiaria, il catechista coadiutore Luciani e un altro «giovane loro allievo», rimasto ignoto; con loro erano presenti anche quattro suore figlie di Maria Ausiliatrice: Giovanna Borgo, Angela Vallese, Angiolina Cassolo e Laura Rodriguez.
            I missionari si impegnarono per la catechesi e la formazione degli abitanti di Patagones e Viedma aprendo un collegio intitolato a san Giuseppe, mentre le figlie di Maria Ausiliatrice fondarono un istituto dedicato a Santa Maria de Las Indias. Vennero quindi avviate spedizioni presso le colonie che sorgevano lungo il corso del Rio Negro, con l’obiettivo di garantire sostegno spirituale e catechistico agli emigrati che abitavano quelle regioni e, allo stesso tempo, iniziare in modo sistematico la catechesi per la conversione delle comunità autoctone della Patagonia.
            La presenza dei salesiani in Argentina fu favorita e seguita con interesse dal governo argentino, che non fu ovviamente spinto in questa scelta da un fervido desiderio di vedere le comunità indigene convertite al cristianesimo, ma dalla necessità di calmare l’opinione pubblica indignata per le uccisioni indiscriminate e la vendita dei prigionieri: le campagne militari del 1879 per espandere i confini si erano scontrate con la resistenza delle comunità che abitavano i territori della Pampas e Patagonia.

Usi e costumi delle comunità autoctone della Patagonia
            Conoscere gli usi, i costumi, la cultura, le credenze delle comunità che si intendevano convertire fu un impegno importante per i primi missionari: già don Giacomo Costamagna, nel corso della sua missione esplorativa verso Patagones del 1879 annotò che, una volta superato il Rio Colorado, si era imbattuto in un albero «carico di drappi, o meglio dire, cenci, cui gli Indii avevano appesi come altrettanti voti». Il missionario spiegò che l’albero non era considerato una divinità, ma semplicemente la dimora «degli dei o spiriti buoni» e che i cenci dovevano essere una sorta di offerta per placarli e renderli benevoli. Costamagna scoprì successivamente che le comunità veneravano un «Dio supremo» chiamato Gùnechen.
            Le conoscenze aumentarono negli anni. Con il tempo i missionari compresero che le comunità della Patagonia credevano in un «Essere Supremo» che amministrava e reggeva l’universo e che il loro concetto di divinità benevola però – se paragonato a quello cristiano –appariva confuso, poiché spesso non era possibile «distinguere il principio del bene, che è Dio, dal genio del male che è il demonio». I membri della comunità temevano solo «le influenze del genio cattivo», per cui alla fine gli indios imploravano solo la divinità malvagia, affinché si astenesse da ogni male.
            I missionari annotarono tristemente che le comunità indigene «nulla sanno domandare al Signore di cose spirituali» e descrissero anche come veniva affrontata la malattia e la morte di un membro della comunità. Secondo la credenza comune il demonio, chiamato Gualicho, si impossessava degli infermi e, nel caso di morte del malato, il demone “aveva vinto”: «ed allora piangono, pregano e cantano lamentazioni accompagnate da mille esorcismi, coi quali pretendono di ottenere che il genio del male lasci in pace il defunto».
            Una volta sepolto il cadavere, iniziava il periodo del lutto, che in genere durava sei giorni in cui gli Indi «gettati colla faccia al suolo», cantavano «una specie di lamentazione»; abitare dove il defunto aveva risieduto ed entrare in contatto con qualche suo effetto personale era fortemente sconsigliato, perché in quel luogo aveva abitato Gualicho.
            Non esistevano cimiteri condivisi e sopra le tombe era possibile osservare «dove due e dove tre scheletri di cavalli», che venivano sacrificati al defunto perché fossero per lui di aiuto e sostegno nell’aldilà. I cavalli venivano così uccisi sopra la tomba lasciando lì i cadaveri in modo che il morto potesse usufruire della loro carne, mentre la sella, i rifornimenti vari e i gioielli venivano seppelliti con il cadavere.
            Nella vita ordinaria, solo i più ricchi avevano abitazioni in mattoni crudi, di forma quadrata, con null’altro «che l’uscio per entrarvi, ed una apertura nel mezzo del tetto per la luce e per l’uscita del fumo», mentre le comunità lungo il corso del Rio Negro erano stabilite presso fiumi o lagune e le abitazioni erano per lo più delle semplici tende: «cuoio di cavallo o di guanaco sospeso in alto con alcuni bastoncelli fissi nel suolo». A coloro che si erano arresi, il governo argentino aveva ordinato di costruirsi un rancio, cioè, «una cameretta più o meno grande formata ordinariamente di ghioggiuoli, piante di cui abbonda il campo nei luoghi umidi». I più fortunati avevano costruito case con pali di salice e malta.
            Nel 1883 i missionari annotarono: «Oggidì e specialmente nella cattiva stagione raro succede di vedere un Indio non vestito da capo a piedi, anche tra coloro che non si sono ancora arresi. Gli uomini vestono pressoché come i nostri, meno la pulitezza che non l’hanno, ed i pantaloni che li portano d’ordinario come i Garci, a modo, come dicono essi, di Ciripà. I più poveri, se non hanno altro, s’involgono dentro di una specie di manto di stoffa la più ordinaria. Le donne portano la manta, ed è una sopravveste, che copre tutto il corpo». Le donne rimasero più a lungo fedeli ai costumi tradizionali: «le donne hanno l’ambizione di portare grossi orecchini di argento, più anelli nelle dita, ed una specie di braccialetto sui polsi, fatto a filigrana d’argento con più giri attorno al braccio. Alcune di loro e le più agiate portano pure varii giri di filigrana sopra il petto. Esse sono di natura timidissime, e quando si avvicina alla loro abitazione alcun forastiero sconosciuto si nascondono frettolosamente».
            I matrimoni seguivano la tradizione: lo sposo consegnava ai genitori della futura moglie «varii oggetti preziosi in oro e argento, come sono anelli, braccialetti, staffe, freni e simili», oppure poteva più semplicemente versare «in danaro una somma convenuta fra loro»: i padri concedevano in sposa la propria figlia solo per denaro, e per di più, lo sposo era obbligato a restare presso la dimora della sposa e a provvedere al mantenimento dell’intera famiglia.
            Tra i capi o cacicchi era diffusa la poligamia e di conseguenza, come affermava don Costamagna in una lettera pubblicata nel gennaio 1880, era difficile convincerli a rinunciarvi per poter divenire cristiani.

Evangelizzazione delle comunità autoctone: “non con le percosse, ma con la mansuetudine e con la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici”
            Un ruolo fondamentale nell’opera di catechesi ed evangelizzazione della Patagonia fu rivestito da don Domenico Milanesio, anche per la sua opera di mediatore tra le comunità e il governo argentino.
            Il missionario raggiunse i confratelli l’8 novembre 1880 dopo essere stato nominato vicario della parrocchia di N.S. Signora della Mercede di Viedma e in una lettera a don Michele Rua del 28 marzo 1881 raccontò la sua prima missione tra «gli indii del campo», sottolineando le notevoli difficoltà riscontrate nel tentativo di istruire e catechizzare: le comunità autoctone vivevano infatti distanti le une dalle altre e don Domenico doveva recarsi di persona presso i loro toldos, ossia le abitazioni. Talvolta riusciva a radunare più famiglie insieme e allora la catechesi veniva svolta all’esterno dove, seduti sui prati, i patagoni ascoltavano la lezione di catechismo.
            Don Domenico raccontò che anche una semplice preghiera come «Gesù mio, misericordia», da lui considerata semplice e di facile memorizzazione, richiese in realtà molto tempo per essere compresa: sebbene venisse fatta ripetere tra le cinquanta e cento volte, accadeva spesso che nel giro di un paio di giorni venisse dimenticata. Il desiderio però di vedere le comunità autoctone convertite e sinceramente cristiane fu una motivazione più che sufficiente per continuare nella missione: «Ma la nostra Religione ci comanda di amarli come nostri fratelli, come figli del Padre Celeste, come anime redente dal Sangue di Gesù Cristo; e perciò colla carità paziente, benigna, e che tutto spera, si dice, si ripete un giorno, due, dieci, venti finché basta, e finalmente si riesce a far loro imparare le cose necessarie. Se vedesse poi come sono contenti dopo; è una vera consolazione per essi e per noi, che ci ricompensa di tutto».
            Non fu semplice far accettare a queste comunità le verità della fede cattolica: don Domenico, in una relazione pubblicata sul Bollettino nel novembre 1883, raccontò che nel corso di una missione presso la comunità del cacicco (capo) Willamay, presso Norquin, rischiò seriamente la vita quando l’assemblea a cui stava predicando cominciò a discutere gli insegnamenti ricevuti fino a quel momento. Lo stesso Willamay, definendo Milanesio «un raccontator di sogni alla guisa delle vecchie», si ritirò nel suo toldo, mentre c’era chi parteggiava per il missionario e chi invece era dello stesso avviso del cacicco; di fronte a questa situazione Milanesio preferì rimanere in disparte e come annotò lui stesso: «Io poi me ne stava silenzioso aspettando l’esito di quell’agitamento di animi, il quale mi si faceva foriere di sinistra avventura. Ad un certo punto credetti veramente che fosse per me giunta l’ora di buscarmi almeno qualche bastonata da quei barbari, e forse anche di lasciare in mezzo di loro la mia pelle». Fortunatamente prevalse alla fine il partito che sosteneva il missionario, così il salesiano poté concludere la sua catechesi tra i ringraziamenti della comunità.
            Catechizzare queste popolazioni non fu quindi un’impresa facile e i salesiani furono ostacolati dai militari argentini che, con i loro atteggiamenti e con le loro abitudini, offrirono esempi negativi del vivere cristianamente.
            Don Fagnano registrò: «La conversione degli Indiani non è tanto facile ad ottenersi, quando sono obbligati a vivere presso a certi soldati, i quali non danno loro buon esempio di moralità; e nei loro toldos per ora non si può penetrare senza pericolo della vita, perché questi selvaggi si servono di tutti i mezzi per vendicarsi contro i Cristiani, che, secondo loro, vanno ad impadronirsi dei loro campi e dei loro bestiami». Lo stesso salesiano scrisse anche di due comunità che, stabilitesi a poca distanza da un accampamento argentino dove erano state aperte «botteghe da liquori», si abbandonarono «al vizio della ubriachezza». Don Fagnano rimproverò i militari che «per vile guadagno», posero le basi per rendere gli Indi ancora più propensi ad abbandonarsi a «bestiali disordini».
            Don Fagnano e don Milanesio continuarono però ad avvicinare, catechizzare e formare queste comunità, a «istruirli nelle verità del Vangelo, educarli colla parola, ma più con il buono esempio», nonostante il pericolo, perché, come da desiderio di don Bosco, potessero divenire «buoni cristiani e onesti cittadini”.


Giacomo Bosco