Il sogno delle 22 lune (1854)

Nel marzo del 1854 in giorno di festa, D. Bosco dopo i vespri radunò tutti gli alunni interni nella retro sagrestia dicendo di voler raccontar loro un sogno. Erano presenti fra gli altri i giovani Cagliero, Turchi, Anfossi, il Ch. Reviglio, il Ch. Buzzetti, dai quali abbiamo raccolta la nostra narrazione. Tutti erano persuasi che sotto il nome di sogno D. Bosco occultasse le manifestazioni che aveva dal cielo. Il sogno fu questo:

            – Io mi trovava con voi nel cortile e godeva nel mio cuore di vedervi vispi, allegri e contenti. Chi saltava, chi gridava, chi correva. Ad un tratto vedo che uno di voi esce da una porta della casa e si mette a passeggiare in mezzo ai compagni, con una specie di cilindro, ossia turbante, sul capo. Era questo trasparente, tutto illuminato nell’interno; e colla figura di una grossa luna, nel bel mezzo della quale era scritta la cifra 22. Io stupito cercai subito di avvicinarlo per dirgli che lasciasse quell’arnese da carnevale: ma ecco mentre l’aria si oscurava, come se fosse stato dato un segnale di campanello, il cortile si sgombra e scorgo tutti i giovani sotto i portici della casa, disposti in fila. Il loro aspetto manifestava un gran timore, e dieci o dodici di essi avevano il viso ricoperto di strana pallidezza. Io passai davanti a tutti questi per osservarli; e scorgo fra di loro quello che aveva la luna sul capo, più pallido degli altri; dai suoi omeri pendeva una coltre funebre. M’incammino verso di lui per chiedergli che cosa significasse quello strano spettacolo; ma una mano mi trattiene, e vedo uno sconosciuto di grave aspetto e nobile portamento, che mi dice:
            – Ascoltami, prima di avvicinarti a lui; egli ha ancora 22 lune di tempo, e prima che siano passate, morrà. Tienilo d’occhio e preparalo!
            Io voleva domandargli qualche spiegazione del suo parlare e della sua improvvisa comparsa, ma più non lo vidi.
            – Il giovane, miei cari figliuoli, io lo conosco ed è tra di voi!
            Un vivo terrore si impossessò di tutti i giovani, tanto più essendo la prima volta che D. Bosco annunziava in pubblico e con una certa solennità la morte di uno della casa. Il buon padre non poté a meno di notarlo e proseguì:
            – Io lo conosco ed è tra voi quel delle lune. Ma non voglio che vi spaventiate. È un sogno come vi ho detto, e sapete che non sempre si deve prestar fede ai sogni. Ad ogni modo, comunque sia la cosa, quello che è certo si è che dobbiamo essere sempre preparati come ci raccomanda il divin Salvatore nel santo Vangelo e non commettere peccati; ed allora la morte non ci farà più paura. Fatevi tutti buoni, non offendete il Signore, ed io intanto starò attento e terrò d’occhio quello del numero ventidue, il che vuol dire 22 lune, ossia 22 mesi: e spero che farà una buona morte.
            Questo annunzio, se spaventò sul principio i giovani, fece però in appresso grandissimo bene, perché stavano tutti attenti a mantenersi in grazia di Dio, col pensiero della morte, ed a contare intanto le lune che trascorrevano. D. Bosco a quando a quando li interrogava:
            – Quante lune vi sono ancora?
            E gli veniva risposto:
            – Venti, diciotto, quindici, ecc.
            Talora i giovani che badavano a tutte le sue parole, gli si accostavano per annunziargli le lune già passate, e cercavano far pronostici, indovinare; ma D. Bosco stava in silenzio. Il giovane Piano, entrato come studente nell’Oratorio nel mese di novembre 1854, sentiva parlare della nona luna e dai compagni e dai superiori venne a sapere ciò che D. Bosco aveva predetto. Ed egli pure, come tutti gli altri, stette in osservazione.
            Finì l’anno 1854, trascorsero molti mesi del 1855 e venne l’ottobre, cioè la luna ventesima. Cagliero, già chierico, era incaricato di sorvegliare tre stanzette vicine nell’antica casa Pinardi, che servivano di dormitorio ad una camerata di giovani. Fra questi era un certo Gurgo Secondo, Biellese da Pettinengo, in sui 17 anni, di belle e robuste forme, tipo di una florida sanità, che dava tutte le speranze di lunga vita, fino ad estrema vecchiezza. Suo padre l’aveva raccomandato a D. Bosco perché lo tenesse in pensione. Valente suonatore di pianoforte e di organo studiava da mane a sera la musica e guadagnava di bei soldi dando lezioni in Torino. D. Bosco lungo l’anno, a quando a quando, aveva interrogato il Ch. Cagliero sulla condotta dei suoi assistiti, con particolare premura. Nell’ottobre lo chiamò a sé e gli disse:
            – Dove dormi tu?
            – Nella stanzetta ultima, rispose il Ch. Cagliero, e di là assisto le altre due.
            – E non sarebbe meglio che trasportassi il tuo letto in quella di mezzo?
            – Come vuole; ma le faccio notare che le altre due stanze sono asciutte, mentre nella seconda una parete è formata dalla muraglia del campanile della chiesa, costrutto di fresco. Vi è quindi un po’ di umidità: si avvicina l’inverno e potrei prendermi qualche malanno. D’altronde di dove mi trovo adesso, posso benissimo assistere tutti i giovani del mio dormitorio.
            – Quanto ad assisterli lo so che puoi; ma è meglio, replicò D. Bosco, che te ne vada in quella di mezzo.
            Il Ch. Cagliero obbedì, ma dopo qualche tempo chiese licenza a D. Bosco di tramutare il suo letto nella stanza primiera. D. Bosco non acconsentì, ma gli disse:
            – Sta dove sei e riposa tranquillo che la tua sanità nulla avrà a soffrirne.
            Il Ch. Cagliero si acquietò e alcuni giorni dopo di bel nuovo fu chiamato da D. Bosco:
            – Quanti siete nella tua nuova stanza?
            Rispose:
            – Siamo tre: io, il giovane Gurgo Secondo, il Garovaglia; ed il pianoforte che fa quattro.
            – Bene, disse D. Bosco; va bene: siete tre suonatori, e Gurgo potrà darvi lezioni di pianoforte. Tu guarda di assisterlo bene. E null’altro aggiunse. Il chierico, punta da curiosità e venuto in sospetto, incominciò a fargli qualche domanda, ma D. Bosco lo interruppe dicendogli:
            – Il perché lo saprai a suo tempo.
            Il segreto era che in quella stanza stava il giovane delle 22 lune.
            Al principio di dicembre non vi era alcun ammalato nell’Oratorio, e D. Bosco, salito in cattedra alla sera dopo le orazioni, annunziò che uno dei giovani sarebbe morto prima del santo Natale. Per questa nuova predizione e perché le 22 lune ormai si compievano, in casa regnava una grande trepidazione, si ricordavano frequentemente le parole di D. Bosco e se ne temeva l’avveramento.
            D. Bosco in quei giorni aveva chiamato a sé ancora una volta il Ch. Cagliero, e gli domandò se Gurgo si portasse bene e se, date le lezioni di musica in città, ritornasse a casa per tempo. Cagliero gli rispose che tutto andava bene e che non vi erano novità né suoi compagni. Ottimamente; sono contento: invigila perché siano tutti buoni, e avvisami se accadessero degli inconvenienti. Cosi gli disse D. Bosco che più altro non aggiunse.
            Ed ecco verso la metà di dicembre essere il Gurgo assalito da una colica violenta e così pericolosa che, mandato a chiamare in fretta il medico, per suo consiglio gli si amministrarono i santi Sacramenti. Per otto giorni, e molto penosa, durò la malattia e volgeva in meglio, grazie alle cure del dottore Debernardi, sicché Gurgo poté levarsi da letto convalescente. Il male era come sparito e il medico ripeteva averla il giovane scappata bella. Intanto era stato avvisato il padre, poiché, non essendo ancora morto alcuno all’Oratorio, D. Bosco voleva impedire agli allievi un funereo spettacolo. La novena del Santo Natale era incominciata e Gurgo pressoché guarito contava d’andare al paese nelle feste natalizie. Tuttavia, quando si davano buone nuove di lui a D. Bosco, ci aveva l’aria di chi non voglia credere. Venne il padre, e trovato il figlio già in buono stato, chiesta e ottenuta licenza, andò a prendere il posto alla vettura per condurlo l’indomani a Novara, e poi a Pettinengo, perché si ristabilisse pienamente in salute. Era di domenica, 23 dicembre; Gurgo però quella stessa sera mostrò desiderio di mangiare un po’ di carne, cibo vietato dal medico. Il padre per rafforzarlo corse a comprarla e la fece cuocere in una macchinetta da caffè. Il giovane bevette il brodo e mangiò la carne, che certo doveva essere mezzo cruda e mezzo cotta e forse troppo – più del necessario. Il padre si ritirò; nella camera rimase l’infermiere e Cagliero. Ed ecco ad una certa ora della notte l’infermo comincia a lamentarsi per i dolori di ventre. La colica era tornata ad assalirlo nel modo più straziante. Gurgo chiamò per nome l’assistente:
            – Cagliero, Cagliero? Ho finito di farti scuola di pianoforte.
            – Abbi pazienza: coraggio! rispondeva Cagliero.
            – Io non vado più a casa: non parto più. Prega per me; se sapessi quanto male mi sento. Raccomandami alla Madonna.
            – Sì, pregherò: invoca anche tu Maria SS..
            Intanto Cagliero incominciò a pregare; ma vinto dal sonno si addormentò. Ed ecco all’improvviso l’infermiere lo scuote e accennandogli Gurgo corre subito a chiamare D. Alasonatti, che dormiva nella camera vicina. Questi venne, e dopo qualche istante Gurgo spirava. Fu una desolazione in tutta la casa. Cagliero al mattino incontrò Don Bosco che scendeva le scale per andare a dire la S. Messa ed era molto mesto, perché già gli era stata comunicata la dolorosa notizia.
            Intanto nella casa si faceva un gran parlare di questa morte. Si era alla vigesima seconda luna e questa non ancora compiuta; e Gurgo, morendo il 24 dicembre prima dell’aurora, compieva anche la seconda predizione, cioè che egli non avrebbe vista la festa del santo Natale.
            Dopo pranzo i giovani e i chierici circondavano silenziosi D. Bosco. A un tratto il Ch. Turchi Giovanni lo interrogò se Gurgo fosse quello delle lune.
            – Sì, rispose D. Bosco: era proprio lui; è appunto desso che io vidi nel sogno!
            Quindi soggiunse ancora:
– Avrete osservato, che io, tempo fa, lo aveva messo a dormire in una camerata speciale, raccomandando a taluno dei migliori assistenti, che là trasportasse il suo letto acciocché potesse continuamente vigilar su di lui. E l’assistente fu il Ch. Giovanni Cagliero. E improvvisamente voltosi a questo chierico gli disse: Un’altra volta non farai più tante osservazioni a quanto ti dirà D. Bosco. Adesso capisci perché io non voleva che tu lasciassi la camera ove era quel poveretto? Tu mi supplicavi; ma io non volli contentarti, appunto perché Gurgo avesse un custode. Se egli fosse ancor vivo, potrebbe dire le quante volte gli andava parlando così alla larga della morte e le cure che gli prodigai per disporlo ad un felice passaggio.
            “Io – scrisse Mons. Cagliero – intesi allora il motivo delle speciali raccomandazioni fattemi da D. Bosco, ed imparai a conoscere ed apprezzare vie meglio l’importanza, delle sue parole e dei suoi paterni avvisi”.
            “La sera, vigilia di Natale – narra Enria Pietro – mi ricordo ancora D. Bosco che saliva sulla cattedra girando gli occhi intorno come se cercasse qualcuno. E disse: il primo giovane che muore nell’Oratorio. Ha fatto le sue cose bene e speriamo che sia in paradiso. Raccomando a voi che siate sempre preparati…E non poté più parlare perché il suo cuore era troppo addolorato. La morte le aveva rapito un figlio”.
(MB V, 377-383)