La psicologia moderna ha dimostrato l’importanza e l’influsso delle emozioni nella vita della psiche umana e ognuno sa che le emozioni sono particolarmente forti durante la giovinezza. Ma non si parla quasi più delle «passioni dell’anima», che l’antropologia classica ha analizzato accuratamente, come testimonia l’opera di Francesco di Sales, e, in particolare, quando scrive che «l’anima, in quanto tale, è la sorgente delle passioni». Nel suo vocabolario il termine «emozione» non appare ancora con le connotazioni che gli attribuiamo. Dirà, invece, che le nostre «passioni» in certe circostanze sono «mosse». In ambito educativo, la questione che si pone riguarda l’atteggiamento che conviene avere di fronte a queste manifestazioni involontarie della nostra sensibilità, che hanno sempre una componente fisiologica.
«Io sono un povero uomo e nulla più»
Tutti coloro che hanno conosciuto Francesco di Sales hanno notato la sua grande sensibilità e emotività. Gli saliva il sangue alla testa e il volto diventava tutto rosso. Conosciamo i suoi scatti d’ira contro gli «eretici» e la cortigiana di Padova. Come ogni buon Savoiardo, era «abitualmente calmo e dolce, ma capace di terribili scatti d’ira; un vulcano sotto la neve». La sua sensibilità era assai viva. In occasione della morte della sorellina Jeanne, scriveva a Giovanna di Chantal, anch’essa costernata:
Ahimè, Figlia mia: io sono un povero uomo e nulla più. Il mio cuore s’è intenerito più di quanto non avrei mai immaginato; ma la verità è che vi ha contribuito assai il dispiacere vostro e di mia madre: ho avuto paura per il cuore vostro e per quello di mia madre.
Alla morte della madre, non nascose che quella separazione gli aveva fatto versare lacrime; ebbe certo il coraggio di chiuderle gli occhi e la bocca e di darle un ultimo bacio, ma dopo ciò, confidava a Giovanna di Chantal, «il cuore mi si gonfiò grandemente, e piansi per questa buona madre più di quanto non avessi mai fatto dal giorno in cui abbracciai il sacerdozio». Egli, infatti, non frenava sistematicamente le manifestazioni esteriori dei suoi sentimenti, il suo umanesimo le accettava tranquillamente. Una preziosa testimonianza di Giovanna di Chantal ci informa che «il nostro santo non era esente da sentimenti e da moti delle passioni, e non voleva esserne liberato».
Si sa bene che le passioni dell’anima influiscono sul corpo, provocando reazioni esteriori ai loro movimenti interiori: «Noi esterniamo e manifestiamo le nostre passioni e i movimenti che le nostre anime hanno in comune con gli animali per mezzo degli occhi, con movimenti delle sopracciglia, della fronte e di tutto il volto». Così, non è in nostro potere non provare paura in determinate circostanze: «È come se uno dicesse ad una persona che si vede venire contro un leone od un orso: Non aver paura». Ora, «quando si prova timore si diventa pallidi, e quando veniamo richiamati per una cosa che ci contraria, ci sale il sangue al volto e diventiamo rossi, oppure la contrarietà può anche far sgorgare lacrime dai nostri occhi». I bambini, «se vedono un cane che abbaia, immediatamente si mettono a gridare e non smettono finché non sono vicini alla mamma».
Quando la signora di Chantal incontrerà l’assassino del marito, come reagirà il suo «cuore»? «So che, senza dubbio, cotesto vostro cuore sobbalzerà e si sentirà sconvolto, e il vostro sangue bollirà», prevede il suo direttore spirituale, aggiungendo questa lezione di saggezza: «Dio ci fa toccare con mano, in queste emozioni, quanto sia vero che siamo fatti di carne, di ossa e di spirito».
Le dodici passioni dell’anima
Nell’antichità, Virgilio, Cicerone e Boezio riducevano a quattro le passioni dell’anima, mentre sant’Agostino conosceva una sola passione dominante, l’amore, articolato a sua volta in quattro passioni secondarie: «L’amore che tende a possedere ciò che ama, si chiama cupidigia o desiderio; quando lo consegue e lo possiede, si chiama gioia; quando fugge ciò che gli è contrario, si chiama timore; se gli capita di perderlo e ne sente il peso, si chiama tristezza».
Nella Filotea, Francesco di Sales ne segnala sette, paragonandole alle corde che il liutaio deve di volta in volta accordare: l’amore, l’odio, il desiderio, il timore, la speranza, la tristezza e la gioia.
Nel Teotimo, invece, ne enumera fino a dodici. Stupisce che «questa moltitudine di passioni […] sia lasciata nelle nostre anime!». Le prime cinque hanno per oggetto il bene, ossia tutto ciò che la nostra sensibilità ci fa spontaneamente cercare e apprezzare come buono per noi (pensiamo ai beni fondamentali della vita, della salute e della gioia):
Se il bene viene considerato in sé stesso, secondo la sua bontà naturale, genera l’amore, prima e principale passione; se il bene viene considerato in quanto mancante, provoca il desiderio; se, desiderandolo, si pensa di poterlo conseguire, si ha la speranza; se si teme di non poterlo ottenere, si entra nella disperazione; e quando, di fatto, lo si possiede, si ha la gioia.
Le altre sette passioni sono quelle che ci fanno spontaneamente reagire negativamente di fronte a tutto ciò che ci appare come male da evitare e da combattere (pensiamo alla malattia, alla sofferenza e alla morte):
Appena conosciamo il male, lo odiamo; se è assente, lo fuggiamo; se pensiamo di non poterlo evitare, lo temiamo; se riteniamo di poterlo evitare, ci facciamo animo e coraggio; ma se lo sentiamo presente, ci rattristiamo, e allora l’ira e il cruccio intervengono repentinamente per respingerlo e allontanarlo o almeno vendicarsene; e, se ciò non è fattibile, rimaniamo nella tristezza; ma, se riusciamo a respingerlo o a farne vendetta, proviamo soddisfazione e un senso di pace, che è piacere del trionfo, perché come il possesso del bene rallegra il cuore, la vittoria sul male soddisfa il coraggio.
Come si vede, alle undici passioni dell’anima proposte da san Tommaso, Francesco di Sales aggiunge la vittoria sul male, che «soddisfa il coraggio» e provoca la gioia del trionfo.
L’amore, prima e principale passione
Come era facile prevedere, l’amore è presentato come la «prima e principale passione»: «L’amore viene al primo posto, fra le passioni dell’anima: è il re di tutti i moti del cuore, trasforma in sé tutto il resto e ci fa essere ciò che esso ama». «L’amore è la prima passione dell’anima», ripete.
Esso si manifesta in mille maniere e il suo linguaggio è assai diversificato; infatti, «non si esprime soltanto a parole, ma anche con gli occhi, con i gesti e con le azioni. Per quello che riguarda gli occhi, le lacrime che ne sgorgano sono prove d’amore». Ci sono pure i «sospiri d’amore». Ma tali manifestazioni dell’amore sono differenti. La più abituale e superficiale è l’emozione o passione, la quale mette in moto quasi involontariamente la sensibilità.
E l’odio? Odiamo spontaneamente ciò che ci appare come un male. Occorre sapere che, tra le persone, ci sono forme di odio e avversioni istintive, irrazionali, inconsapevoli, come quelle esistenti tra il mulo e il cavallo, tra la vigna e i cavoli. Non ne siamo per nulla responsabili, perché non dipendono dalla nostra volontà.
Il desiderio e la fuga
Il desiderio è un’altra realtà fondamentale della nostra psiche. La vita quotidiana provoca molteplici desideri, perché il desiderio consiste nella «speranza di un bene futuro». I più comuni desideri naturali sono quelli che «riguardano i beni, i piaceri e gli onori».
All’opposto, noi fuggiamo spontaneamente i mali della vita. La volontà umana di Cristo lo spingeva a fuggire i dolori e le sofferenze della passione; di qui il tremore, l’angoscia e il sudare sangue.
La speranza e la disperazione
La speranza concerne un bene che si pensa di poter ottenere. Filotea è invitata a esaminare come si è comportata in riferimento alla «speranza, forse troppo spesso riposta nel mondo e nella creatura, e troppo poco in Dio e nelle cose eterne».
Quanto alla disperazione, guardate per esempio quella dei «giovani aspiranti alla perfezione»: «Appena incontrano una difficoltà sul loro cammino, eccoti subito una sensazione di disappunto, che li spinge a fare un mucchio di lamentele, tale da dare l’impressione di essere travagliati da grandi tormenti. L’orgoglio e la vanità non possono tollerare il minimo difetto, senza sentirsi subito fortemente turbati sino a giungere alla disperazione».
La gioia e la tristezza
La gioia è «la soddisfazione per il bene ottenuto». Così, «quando incontriamo quelli che amiamo, non è possibile non sentirsi commossi per la gioia e la contentezza». Il possesso di un bene produce infallibilmente una compiacenza o allegrezza, come la legge di gravità muove la pietra: «È il peso che scuote le cose, le muove e le ferma: è il peso che muove la pietra e la trascina nella discesa non appena vengono tolti gli ostacoli; è lo stesso peso che le fa continuare il movimento verso il basso; infine, è sempre lo stesso peso che la fa arrestare ed assestarsi quando è giunta al suo posto».
La gioia giunge talvolta al riso. «Il riso è una passione che erompe senza che lo vogliamo e non è in nostro potere trattenerlo, tanto più che ridiamo e siamo mossi a ridere da circostanze impreviste». Nostro Signore ha riso? Il vescovo di Ginevra pensa che Gesù sorrideva quando voleva: «Nostro Signore non poteva ridere, perché per lui nulla era imprevisto, dato che conosceva tutto prima che avvenisse; poteva, certo, sorridere, ma lo faceva volutamente».
Le giovani visitandine, prese a volte da un incontenibile riso quando una compagna si batteva il petto o una lettrice commetteva un errore durante la lettura a tavola, avevano bisogno di una lezioncina su questo punto: «I pazzi ridono di ogni situazione, perché tutto li sorprende, non riuscendo a prevedere nulla; ma i saggi non ridono con tanta leggerezza, perché impiegano maggiormente la riflessione, la quale fa sì che prevedano le cose che devono accadere». Detto ciò, non è un difetto ridere di qualche imperfezione, «purché non si vada troppo oltre».
La tristezza è «il dolore per un male presente». Essa «turba l’anima, provoca timori smodati, fa provare disgusto per la preghiera, fiacca e addormenta il cervello, priva l’anima di saggezza, di risoluzione, di giudizio e coraggio e annienta le forze»; è «come un duro inverno che rovina tutta la bellezza della terra e rende indolenti tutti gli animali; perché toglie ogni soavità dall’anima e la rende come pigra e impotente in tutte le sue facoltà».
Può sfociare in certi casi nel pianto: un padre, all’atto di inviare il figlio a corte o agli studi, non può trattenersi «dal piangere congedandosi da lui»; e «una figlia, benché si sia sposata secondo i desideri del padre e della madre, li commuove fino alle lacrime al momento di riceverne la benedizione». Alessandro Magno pianse quando venne a sapere che c’erano altre terre che non avrebbe mai potuto conquistare: «Come un bambino che frigna per una mela che gli si nega, quell’Alessandro, che gli storici chiamano il Grande, più folle di un bambino, si mette a piangere a calde lacrime, perché gli sembra impossibile conquistare gli altri mondi».
Il coraggio e la paura
Il timore si riferisce a un «male futuro». Certuni, volendo fare i coraggiosi, si aggirano da qualche parte durante la notte, ma «appena sentono cadere un sasso o il fruscio di un sorcio che scappa, si mettono ad urlare: Dio mio! – Che cosa c’è, si chiede loro, che cosa avete trovato? – Ho sentito un rumore. – Ma che cosa? – Non lo so». È necessario essere guardinghi, perché «la paura è un male più grande del male stesso».
Quanto al coraggio, prima di essere una virtù, è un sentimento che ci sostiene davanti a difficoltà che normalmente dovrebbero abbatterci. Francesco di Sales lo provò all’atto di intraprendere una lunga e rischiosa visita della sua diocesi di montagna:
Sono sul punto di montare a cavallo per la visita pastorale, che durerà circa cinque mesi. […] Parto pieno di coraggio, e, fin da questa mattina, ho provato una grande gioia di poter cominciare, sebbene, prima, per vari giorni, avessi provato vani timori e tristezze.
La collera e il sentimento del trionfo
Quanto all’ira o collera, non possiamo impedire dall’esserne presi in certe circostanze: «Se mi vengono a dire che qualcuno ha parlato male di me, o che mi venga causata altra contrarietà, immediatamente scoppia la collera e non mi rimane nemmeno una vena che non si contorca, perché il sangue ribolle». Perfino nei monasteri della Visitazione le occasioni di irritarsi e arrabbiarsi non mancavano, e si sentivano prepotenti gli attacchi dell’«appetito irascibile». Niente di strano in ciò: «Impedire che il risentimento della collera si svegli in noi e che il sangue ci salga alla testa, non sarà mai possibile; saremo fortunati se potremo avere questa perfezione un quarto d’ora prima di morire». Può anche succedere «che l’ira sconvolga e metta sottosopra il mio povero cuore, che la testa mi fumi da tutte le parti, che il sangue ribolla come una pentola sul fuoco».
L’appagamento dell’ira, per aver superato il male, provoca l’esaltante emozione del trionfo. Colui che trionfa «non può contenere il trasporto della sua gioia».
Alla ricerca dell’equilibrio
Le passioni e i moti dell’anima sono il più delle volte indipendenti dal nostro volere: «Non si pretende da voi che non abbiate passioni; non è in vostro potere», diceva alle figlie della Visitazione, aggiungendo: «Che cosa può fare una persona per avere tale o tal altro temperamento, soggetto a questa o quella passione? Tutto sta dunque nelle azioni che ne facciamo derivare per mezzo di quel movimento, che dipende dalla nostra volontà».
Una cosa è sicura, i moti d’animo e le passioni fanno dell’uomo un essere estremamente soggetto a variazioni della «temperatura» psicologica, ad immagine delle variazioni climatiche. «La sua vita scorre su questa terra come le acque, fluttuando e ondeggiando in una perpetua varietà di movimenti». «Oggi si sarà felici all’eccesso, e, subito dopo, esageratamente tristi. In tempo di carnevale si vedranno manifestazioni di gioia e di allegria, con azioni sciocche e pazzoidi, poi, subito dopo, vedrete segni di tristezza e di tedio così esagerati da far pensare che si tratti di cose terribili e, all’apparenza, irrimediabili. Un altro, al presente, sarà troppo fiducioso e nulla lo spaventerà, e, subito dopo, verrà preso da un’angoscia che lo sprofonderà fin sotto terra».
Il direttore spirituale di Giovanna di Chantal ha individuato bene le diverse «stagioni dell’anima» attraversate da costei agli inizi della sua fervorosa vita:
Vedo che si trovano nella vostra anima tutte le stagioni dell’anno. Ora sentite l’inverno attraverso le molte sterilità, distrazioni, pesantezze e noie; ora le rugiade del mese di maggio col profumo dei santi fiorellini, e ora il calore dei desideri di piacere al nostro buon Dio. Non resta che l’autunno del quale, come dite, non vedete molti frutti. Orbene, spesso avviene che, trebbiando il grano o pigiando l’uva, si trova un frutto più abbondante di quanto promettessero le messi e la vendemmia. Voi vorreste che fosse sempre primavera o estate; ma no, Figlia mia: bisogna che avvenga l’avvicendamento delle stagioni nel nostro interiore come nel nostro esteriore. Solo in cielo tutto sarà primavera quanto alla bellezza, tutto sarà autunno quanto al godimento e tutto sarà estate quanto all’amore. Lassù, non vi sarà più inverno, ma qui esso è necessario per l’esercizio dell’abnegazione e di mille piccole e belle virtù, che si esercitano nel tempo delle aridità.
La salute dell’anima come quella del corpo non può consistere nell’eliminare questi quattro umori, ma nel raggiungere una «invariabilità d’umore». Quando una passione predomina sulle altre, causa le malattie dell’anima; e siccome è oltremodo difficile regolarla, ne deriva che gli uomini sono bizzarri e variabili, per cui non si scorge altro tra loro se non fantasie, incostanze e stupidità.
Le passioni hanno di buono il fatto di consentirci «d’esercitare la volontà nell’acquisto della virtù e nella vigilanza spirituale». Nonostante certe manifestazioni, nelle quali si deve «soffocare e reprimere le passioni», per Francesco di Sales non si tratta di eliminarle, cosa impossibile, ma di controllarle come più si può, cioè moderarle e orientarle a un fine che sia buono.
Non si tratta, quindi, di fingere di ignorare le nostre manifestazioni psichiche, come se non esistessero (ciò che ancora una volta è impossibile), ma di «vegliare in continuazione sul proprio cuore e sul proprio spirito per mantenere le passioni nella norma e sotto il controllo della ragione; altrimenti si avranno soltanto originalità e comportamenti disuguali». Filotea non sarà felice, se non quando avrà «sedato e pacificato tante passioni che [le] provocavano inquietudine».
Avere uno spirito costante è uno dei migliori ornamenti della vita cristiana e uno dei più amabili mezzi per acquistare e conservare la grazia di Dio, e anche per edificare il prossimo. «La perfezione, quindi, non consiste nell’assenza delle passioni, bensì nel loro corretta regolazione; le passioni stanno al cuore come le corde a un’arpa: bisogna che siano accordate perché possiamo dire: Ti loderemo con l’arpa».
Quando le passioni ci fanno perdere l’equilibrio interiore e esteriore, due metodi sono possibili: «opponendovi passioni contrarie, oppure opponendovi maggiori passioni della stessa specie». Se sono turbato dal «desiderio delle ricchezze o del piacere voluttuoso», combatterò tale passione con il disprezzo e la fuga, oppure aspirerò a ricchezze e piaceri superiori. Posso lottare contro la paura fisica con il contrario che è il coraggio, oppure sviluppando un timore salutare riguardante l’anima.
L’amore di Dio, da parte sua, imprime alle passioni una vera e propria conversione, cambiandone l’orientamento naturale e prospettando loro un fine spirituale. Per esempio, «l’appetito per i cibi viene reso molto spirituale se, prima di appagarlo, gli si dà il motivo dell’amore: e no, Signore, non è per accontentare questo povero ventre, né per appagare questo appetito che vado a tavola, ma, secondo la tua Provvidenza, per mantenere questo corpo che tu hai fatto soggetto a tale miseria; sì, Signore, perché così è piaciuto a te».
La trasformazione così operata somiglierà a un «artificio» utilizzato nell’alchimia che cambia il ferro in oro. «O santa e sacra alchimia! – scrive il vescovo di Ginevra –, o polvere divina della fusione, con la quale tutti i metalli delle nostre passioni, affetti e azioni vengono mutati nell’oro purissimo della celeste dilezione!».
Moti dell’animo, passioni e immaginazioni sono profondamente radicati nell’anima umana: rappresentano una risorsa eccezionale per la vita dell’anima. Sarà compito delle facoltà superiori, la ragione e soprattutto la volontà, moderarle e governarle. Impresa difficile; Francesco di Sales l’ha compiuta con successo, perché, secondo quanto afferma la madre di Chantal, «possedeva un tale assoluto dominio delle sue passioni da renderle obbedienti come schiave; e alla fine non comparivano quasi più».
Educare le nostre emozioni con san Francesco di Sales
🕙: 11 min.