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“Quando mi sono dato a questa parte di sacro ministero intesi di consacrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime; intesi di adoperarmi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo. Dio mi aiuti di poter così continuare fino all’ultimo respiro di mia vita.” (Don Bosco)


            I giovani, e non essi soli, aspettavano avidamente il racconto del sogno; Don Bosco mantenne la promessa, ma con un giorno di ritardo, nella “buona notte” del 30 giugno, solennità del Corpus Domini. Esordì a questo modo: “Mi rallegro nel vedervi. Oh! quante facce angeliche io ho davanti e tutte rivolte a me (risa generali). Ho pensato che raccontandovi quel sogno vi farei paura! Se avessi pur io una faccia angelica, potrei dirvi: Guardate me! E allora si dissiperebbe ogni vostro timore. Ma sfortunatamente non sono altro che fango, come siete voi. Siamo però fattura di Dio e posso dire con S. Paolo che voi siete gaudium meum et corona mea: voi siete la mia consolazione e la mia corona. Però non vi è da stupirsi, se nella corona vi sarà qualche Gloria Patri un po’ ruvido. Ma veniamo al sogno. Io non voleva raccontarvelo per timore di farvi paura; ma poi ho pensato: Un padre nulla deve tener nascosto ai suoi figli, tanto più se essi in ciò che egli sa hanno interesse e questi devono sapere ciò che il padre conosce e fa. Perciò mi son deciso a raccontarvelo in tutti i suoi particolari; ma vi prego di non dargli se non l’importanza che si dà a un sogno, e ciascuno lo prenda nella parte che più gli piace e che è più salutare. Sappiate dunque che il sogno si fa dormendo (risa generali). Ma sappiate anche che questo sogno non l’ho fatto adesso; l’ho fatto quindici giorni addietro, proprio allora quando voi terminavate i vostri esercizi. Era da molto tempo che io pregava il Signore, affinché mi facesse conoscere lo stato dell’anima dei miei figliuoli e che cosa si potesse fare per il loro maggiore avanzamento nella virtù e per sradicare dal loro cuore certi vizi. Specialmente in questi esercizi spirituali io era sopra pensiero per tale motivo. Ringraziando il Signore, gli esercizi sono andati veramente bene, sia per gli studenti che per gli artigiani. Ma il Signore non si fermò qui nelle sue misericordie; Egli volle favorirmi in modo, che io potessi leggere nelle coscienze dei giovani, proprio come se leggessi in un libro; e quello che è più mirabile, vidi non solamente lo stato presente di ciascuno, ma le cose, che a ciascuno sarebbero accadute nell’avvenire. E ciò, in modo proprio anche per me straordinario; perché non mi avveniva mai che io vedessi in simile modo, così bene, così chiaro, così svelatamente nelle cose future e nelle coscienze dei giovani. È stata questa la prima volta. Avevo anche pregato molto Maria Santissima, acciocché mi volesse concedere la grazia, che nessuno di voi avesse il demonio in cuore, e spero che anche questo mi sia stato concesso; poiché ho motivi di credere che tutti voi mi abbiate interamente palesato la vostra coscienza. Essendo io adunque in questi pensieri e pregando il Signore che mi facesse conoscere che cosa potesse giovare e nuocere alla salute dell’anima dei miei cari giovani, andai a letto, ed ecco che mi posi a fare il sogno, che io qui vi racconterò”.
            Il preambolo comincia da un sentimento consueto di profonda umiltà; ma questa volta finisce in un’asserzione di tal natura, che esclude ogni dubbio circa il carattere soprannaturale del fenomeno.
            Il sogno si potrebbe intitolare così: La fede, nostro scudo e nostra vittoria.

            Mi parve di trovarmi nell’Oratorio coi miei giovani, che formano la mia gloria e la mia corona. Era sera in sull’imbrunire. Si vedeva ancora, ma non più tanto chiaramente. Io, uscendo qui dai portici, era incamminato verso la portineria; ma un numero immenso di giovani mi circondava, come voi siete soliti a fare, perché siamo amici. Gli uni erano venuti per salutarmi, gli altri per dirmi qualche cosa. Io indirizzava una parola a questo ed una a quello. Così lentamente era giunto in mezzo al cortile; quando sento degli ahi! ahi! Lamentevoli e prolungati e un rumore grandissimo, misto ad alte strida di giovani e ad urla feroci che venivano dalla parte della portineria. Gli studenti all’udire quell’insolito tumulto vanno per vedere; ma ben presto, insieme cogli artigiani spaventati, li vidi fuggire a precipizio, gridando e correndo verso di noi. Molti artigiani erano passati dalla porta al fondo del cortile.
            Ma crescendo ognor più le grida cogli accenti di dolore e di disperazione, io con ansietà domandava a tutti che cosa fosse accaduto, e cercava di avanzarmi, per portare aiuto ove fosse stato d’uopo. Ma i giovani affollati intorno a me mi trattenevano. Allora io:
            – Ma lasciatemi andare a vedere che cosa c’è che mette tanto spavento.
            – No, no, per carità, tutti mi dicevano; non vada avanti, venga, venga indietro; vi è un mostro che la divorerà; fugga, fugga con noi: non vada laggiù.
            Volli tuttavia vedere che cosa vi fosse e svincolatomi dai giovani mi avanzai alquanto nel cortile degli artigiani, mentre tutti i giovani gridavano:
            -Veda, veda!
            – Che cosa c’è?
            – Veda là in fondo!
            Mi volsi da quella parte e vidi un mostro che sulle prime mi parve un gigantesco leone, che l’eguale certamente non esiste sulla terra. Lo fissai attentamente. Era schifoso, aveva l’aspetto quasi di orso, ma più feroce e orribilissimo La parte di dietro a proporzione delle altre membra era piuttosto piccola, ma le spalle anteriori aveva larghissime, come pure lo stomaco. Enorme era la sua testa, e la bocca così smisurata e aperta, che sembrava fatta per divorare la gente in un boccone. Da questa sporgevano fuori due grossi, acuti e lunghissimi denti a guisa di spade taglienti.
            Io tosto mi ritrassi in mezzo ai giovani, i quali mi chiedevano consiglio ansiosamente: ma neppur io era libero dallo spavento e mi trovava non poco imbarazzato. Tuttavia risposi:
            – Vorrei potervelo dire che cosa avete da fare; ma non lo so. Intanto raduniamoci sotto i portici.
            Mentre così diceva, l’orso entrava nel secondo cortile e si avanzava verso di noi con passo grave e lento, come colui che è sicuro della preda che vuol fare. Noi retrocedemmo inorriditi finché ci siamo trovati qui sotto i portici. I giovani si erano stretti attorno alla mia persona. Tutti gli occhi erano fissi in me:
            – D. Bosco, che cosa dobbiamo fare? – mi dicevano. Ed io pure guardava i giovani, ma silenzioso, non sapendo a qual partito appigliarmi. Finalmente esclamai:
            – Voltiamoci là verso il fondo dei portici, all’immagine della Madonna, mettiamoci in ginocchio, preghiamola fervorosamente, con maggior divozione del solito, perché essa ci dica ciò che abbiamo da fare in questi momenti, ci faccia conoscere chi sia questo mostro, venga in nostro aiuto e ci liberi. Se è un animale feroce, in qualche modo fra tutti insieme cercheremo di ucciderlo; se è un demonio, Maria ci soccorrerà. Non temete! La Madre celeste provvederà alla nostra salute!
            Intanto l’orso continuava ad avvicinarsi lentamente e quasi si strisciava per terra in atto di prendere lo slancio per avventarsi.
            Ci siamo inginocchiati e ci mettemmo a pregare. Trascorsero pochi minuti di grande costernazione. La belva era giunta così vicina da poter con uno slancio piombarci sopra. Quand’ecco non so né come, né quando, ci vedemmo ad un tratto trasportati di là del muro e ci trovammo tutti nel refettorio dei chierici.
            Nel mezzo di questo si vedeva la Madonna che aveva somiglianza, non so bene se colla statua che è qui sotto i portici, o con quella del refettorio stesso, o con quella che è posta sulla cupola, oppure con quella che sta in Chiesa. Ma comunque sia, fatto sta che era tutta raggiante di vivissima luce e illuminava tutto il refettorio, ampliato in vastità ed in altezza cento volte tanto, come un sole in pieno meriggio. Era attorniata da beati e da angioli, sicché quella sala sembrava un paradiso. Le sue labbra si muovevano come se volesse parlare, per dirci qualche cosa.
            Noi in quel refettorio eravamo in numero straordinario. Nei nostri cuori allo spavento sottentrò lo stupore. Gli occhi di tutti erano intenti nella Madonna, la quale con voce dolcissima ci rassicurò.
            -Non temete, disse; abbiate fede; questa è solo una prova che di voi vuol fare il mio divin Figlio.
            Osservai allora attentamente coloro che sfolgoranti di gloria facevano corona alla Santa Vergine e riconobbi Don Alasonatti, Don Ruffino, un certo Michele fratello delle scuole cristiane (Romano, direttore della casa di noviziato dei Fratelli a Torino), che qualcuno di voi avrà conosciuto, e mio fratello Giuseppe; e altri i quali furono anticamente nel nostro Oratorio, appartenenti alla Congregazione ed ora sono in paradiso. Con questi ne vidi alcuni altri che sono ancora vivi.

***

            Quand’ecco che uno di coloro che facevano corteggio alla Vergine, dice ad alta voce: Surgamus! (alziamoci)
            Noi eravamo in piedi e non sapevamo che cosa ci indicasse quell’avviso, e dicevamo: – Ma come surgamus? Se siamo già tutti in piedi! Surgamus! ripeté più forte la stessa voce. I giovani fermi ed attoniti si erano rivolti a me, aspettando un mio cenno; e non sapevano che cosa fare. Io mi volsi colà donde quel suono era partito e dissi:
            – Ma come fare? che cosa vuol dire surgamus, mentre siamo già tutti in piedi?
            E quella voce mi rispose con maggior forza: Surgamus! Io non sapeva rendermi ragione di questo comando che non intendeva.
            Allora un altro di quelli che erano colla Beata Vergine si indirizzò a me, che stava sopra di un tavolo per dominare tutta la moltitudine, e così prese a dire con voce mirabilmente robusta, mentre i giovani stavano attenti:
            – E tu che sei prete dovresti intendere questo surgamus! Quando celebri la S. Messa non dici tutti i giorni sursum corda (in alto i nostri cuori)? Intendi forse con ciò di alzarti materialmente, oppure di innalzare gli affetti del cuore al cielo, a Dio?
            Io tosto gridai ai giovani:
            – Su, su, figliuoli, ravviviamo, fortifichiamo la nostra fede, innalziamo i nostri cuori a Dio; facciamo un atto di amore e di pentimento; facciamo uno sforzo di volontà per pregare con vivo fervore, confidiamo in Dio. E feci un segno e tutti ci inginocchiammo.
            Un momento dopo mentre noi pregavamo sommessamente con slancio pieno di fiducia, una voce di nuovo si fece udire: Surgite (alzatevi)! E fummo tutti in piedi e ci sentimmo sollevare sensibilmente da terra per una forza soprannaturale e salimmo io non so dire quanto, ma ben so che eravamo tutti molto in alto. Non saprei neppur dire sopra di che posassero i nostri piedi. Mi ricordo che io mi teneva stretto al telaio o al parapetto di una finestra. Tutti i giovani poi si arrampicavano su per le finestre e sulle porte. Chi si attaccava di qua, chi si attaccava di là; chi a spranghe di ferro, chi a chiodi robusti, chi alla cornice della volta. Tutti eravamo sollevati in aria ed io era stupito che non cadessimo per terra.
            Ed ecco quel mostro, che avevamo veduto nel cortile, entra nella sala seguito da una innumerevole quantità di bestie di varia specie, ma tutte feroci. Scorrazzavano qua e là pel refettorio, mandavano urli orribili, sembravano smaniose di combattimento, sembrava che ad ogni momento fossero per slanciarsi con un salto addosso a noi. Ma ancora non facevano la prova di assalirci. Ci guatavano però sollevando il muso con occhio sanguigno. Noi dall’alto stavamo osservandole ed io tenendomi stretto stretto a quella finestra: – Se cadessi, diceva fra me, quale strazio orribile farebbero della mia persona!

***

            Mentre noi eravamo in quella strana posizione, una voce uscì dalla Madonna, la quale cantava le parole di S. Paolo: Sumite ergo scutum fidei inexpugnabile (prendete dunque lo scudo invincibile della fede). Era un canto così armonioso, così unito, di tale sublime melodia, che noi eravamo come in estasi. Si sentivano tutte le note dalla più bassa alla più alta e pareva che cento voci cantassero in una sola.
            Noi stavamo ascoltando quel canto di paradiso, quando abbiamo visto partire dai fianchi della Madonna molti leggiadrissimi giovanetti, forniti di ali e discesi dal cielo. Si avvicinarono a noi portando degli scudi in mano e ne ponevano uno sul cuore di ciascheduno dei nostri giovani. Tutti quelli scudi erano grandi, belli, risplendenti. Si rifletteva in essi la luce che veniva dalla Madonna e sembrava proprio una cosa celeste. Ogni scudo nel mezzo pareva di ferro, poi un gran cerchio di diamante, e in ultimo sull’orlo un cerchio d’oro purissimo. Questo scudo rappresentava la fede. Quando tutti fummo così armati, coloro che erano intorno alla Beata Vergine intonarono un duetto e cantavano con sì bella armonia che non saprei quali parole possano in qualche modo esprimere tanta dolcezza. Era tutto ciò che si può immaginare di più bello, di più soave, di più melodioso.
            Mentre io contemplava quello spettacolo ed era assorto in quella musica, fui scosso da una voce potente che gridava: Ad pugnam (Alla lotta)! Tutte quelle belve presero ad agitarsi furiosamente.
            In un subito noi tutti cademmo, restando in piedi sul suolo ed ecco ognuno trovarsi in lotta colle fiere, protetti dallo scudo divino. Non so dire se abbiamo ingaggiata la battaglia nel refettorio oppure nel cortile. Il coro celeste continuava le sue armonie. Quei mostri slanciavano contro di noi, coi vapori che uscivano dalle loro fauci, palle di piombo, lance, saette ed altri proiettili di ogni specie; ma queste armi o non ci arrivavano o colpivano i nostri scudi e rimbalzavano indietro. Ma i nemici a tutti i modi volevano ferire ed uccidere e si precipitavano all’assalto; ma non potevano recarci nessuna ferita. Tutti i loro colpi urtavano con impeto in quelli scudi, ed essi si rompevano i denti e fuggivano. Come flutti l’uno dopo l’altro si succedevano nell’assalirci quelle masse di belve spaventevoli, ma tutte incontravano la stessa sorte.
            Lunga fu la pugna. Finalmente si fece udire la voce della Madonna: Haec est victoria vestra, quae vincit mundum, fides vestra. (questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la vostra fede, 1Gv 5,4)
            A questa voce quella moltitudine di belve spaventata si diede a precipitosa fuga e scomparve. Noi restammo liberi, salvi, vincitori in quella sala immensa del refettorio, sempre illuminata dalla viva luce che si diffondeva dalla Madonna.
            Allora io guardai fissandoli attentamente coloro che portavano quello scudo. Erano molte migliaia. Fra gli altri vidi Don Alasonatti, Don Ruffino, mio fratello Giuseppe e il Fratello delle scuole Cristiane che avevano combattuto con noi.
            Ma gli occhi di tutti i giovani non potevano staccarsi dalla Madonna Santissima. Essa intonava un cantico di ringraziamento, che in noi destava nuovi gaudi e nuove estasi indescrivibili. Non so se si possa sentire cantico più bello in paradiso.

***

            Ma la nostra allegrezza venne all’improvviso turbata da grida e gemiti strazianti misti ad urli feroci. Sembrava che i nostri giovani fossero dilaniati da quelle belve, fuggite pochi momenti prima da quel luogo. Io volli subito uscir fuori per vedere che cosa accadesse, e portar soccorso ai miei figli; ma non poteva uscire perché alla porta vi erano i giovani che mi trattenevano e non volevano a tutti i costi che io uscissi. Io faceva ogni sforzo per liberarmi e diceva loro:
            – Ma lasciatemi andare ad aiutare quelli che gridano. Voglio vedere i miei giovani e se loro tocca danno o morte, voglio morire con loro. Voglio andare, sebbene avessi da lasciarci la vita. E strappatomi dalle loro mani, fui sotto i portici. Ed oh! miserando spettacolo. Il cortile era sparso di morti, di moribondi e di feriti.
            I giovani, impauriti dallo spavento, tentavano fuggire da una parte e dall’altra e tutti quei mostri li inseguivano, si slanciavano loro addosso, conficcavano i denti nelle loro membra e li dilaniavano. Ad ogni istante erano giovani che cadevano e spiravano, mandando grida le più dolorose.
            Ma chi più di tutti faceva spaventevole macello, era quell’orso comparso pel primo nel cortile degli artigiani. Con quei due denti simili a spade trapassava il petto dei giovani da destra a sinistra, e da sinistra a destra e quelli con doppia ferita nel cuore cadevano miseramente morti.
            Io risolutamente mi posi a gridare:
            – Coraggio, miei cari giovani!
            Molti giovani si rifugiarono vicino a me. Ma l’orso al mio apparire mi corse incontro. Io, facendomi coraggio, feci qualche passo verso di lui. Intanto alcuni giovani di quelli che erano nel refettorio e che avevano già vinte le bestie, vennero sulla soglia e si unirono a me. Quel principe dei demoni si avventò contro di me e contro di essi, ma non ci poté ferire perché eravamo difesi dagli scudi. Anzi neppur ci toccò, perché alla vista di questi, spaventato e quasi riverente, indietreggiava. Allora fu che guardando fisso quei suoi lunghi denti in forma di spade, vi lessi scritte due parole a grossi caratteri. Sull’uno era scritto: Otium; sull’altro: Gula.
            Restai stupefatto e andava dicendo fra me: – Possibile che nella nostra casa, dove tutti sono tanto occupati, dove vi è tanto da fare che non si sa neppure dove dare del capo per sbrogliarci delle nostre occupazioni, vi sia chi pecchi di ozio? E riguardo ai giovani mi pare che lavorino, che studino a tempo e luogo e che in ricreazione non perdano tempo. – E non potevo darmi ragione della cosa.
            Ma mi fu risposto:
            – Eppure delle mezz’ore se ne perdono!
            – E di gola poi? io continuava; tra noi pare che anche volendolo non si possano commettere molte golosità. Non abbiamo guari occasioni di essere intemperanti. I cibi non sono ricercati e così le bevande. Si dà appena il necessario. Come dunque possono accadere intemperanze che conducano all’inferno?
            Di nuovo mi fu risposto:
            – O sacerdote! Tu credi di essere profondo nelle cognizioni morali e di avere già molta esperienza; ma in ciò ne sai niente; sei nuovo del tutto. E non sai che si può commettere una golosità, una intemperanza anche bevendo acqua?
            Io non contento volli avere una più chiara spiegazione ed essendo ancora il refettorio illuminato dalla Vergine, andai tutto triste dal fratello Michele perché volesse schiarire il mio dubbio. Michele mi rispose:
            – Eh, mio caro, in questa parte sei ancora novizio. Ti spiegherò quanto domandi.
            Riguardo alla gola hai da sapere che si può peccare d’intemperanza, quando anche a tavola si mangia o si beve più del bisognevole; si commette intemperanza nel dormire o quando si fa qualsiasi cosa riguardo al corpo che sia oltre il bisogno, che non sia necessaria. Riguardo all’ozio sappi che con questa parola non si intende solo il non lavorare e l’occupare o no il tempo di ricreazione nel divertirsi, ma sebbene anche quando in questo tempo si lascia libera l’immaginazione nel pensare a cose che sono pericolose. L’ozio ha luogo eziandio quando nello studio uno si diverte con altrui disturbo, quando certi ritagli di ora si sprecano in letture frivole, o stando inerti a badare agli altri, lasciandosi vincere da quel momento di accidia, e specialmente quando in chiesa non si prega e si hanno a noia le cose di pietà. L’ozio è il padre, la sorgente, la causa di tante tentazioni cattive e di tutti i mali. Tu poi, che sei Direttore di questi giovani, devi procurare di tener da loro lontani questi due peccati, cercando di ravvivare in loro la fede. Se tu potrai ottenere dai tuoi giovani che siano temperanti in quelle piccole cose che ho detto, essi vinceranno sempre il demonio e colla temperanza verranno loro l’umiltà, la castità e le altre virtù. E se occuperanno il tempo a dovere non cadranno mai nelle tentazioni del nemico infernale e vivranno e morranno da santi cristiani.

***

            Ascoltate queste cose, io lo ringraziai di così bella istruzione e quindi per accertarmi se ciò che io vedevo fosse realtà ovvero semplice sogno, cercai di toccargli la mano: ma nulla strinsi. Cercai di stringerla per la seconda volta e per la terza, e inutilmente: non strinsi che aria. Pure tutte quelle persone le vedeva, parlavano, sembravano vive. Mi accostai a Don Alasonatti, a Don Ruffino, a mio fratello: ma non mi fu possibile palpar loro la mano.
            Io era fuor di me ed esclamai:
            – Ma è vero o non è vero tutto ciò che io vedo? Ma queste non sembrano persone? Non le ho udite a parlare?
            Il fratello Michele mi rispose:
            – Dovresti sapere, e lo hai studiato, che, finché l’anima non sarà riunita al corpo, è inutile tentare di toccarmi. Non puoi toccare i puri spiriti. Solo per farci vedere dai mortali dobbiamo prendere la nostra figura. Ma quando tutti risorgeremo al Giudizio, allora riprenderemo i nostri corpi immortali e spiritualizzati.
            Allora volli appressarmi alla Madonna, che pareva avesse qualche cosa a dirmi. Ero quasi vicino a lei, quando mi pervenne all’orecchio un nuovo rumore e nuove e alte grida di fuori. Subito volli uscire per la seconda volta dal refettorio; ma nell’uscire mi svegliai.


            Terminato che ebbe il suo racconto, vi aggiunse queste osservazioni e raccomandazioni: “Checché sia di questo sogno così variamente intrecciato, il fatto si è che in esso si ripetono e spiegano i detti di S. Paolo. Ma tanto era l’abbattimento e la prostrazione di forze cagionatimi da questo sogno, che io pregai il Signore di non permettere che altra volta si presentasse alla mia mente un simile sogno; ma ecco che nella notte seguente rifeci di nuovo lo stesso sogno e di questo dovetti vedere anche la fine, che non aveva vista la notte precedente. Ed io mi mossi e gridai tanto, che Don Berto udì il rumore e al mattino mi venne a chiedere perché avessi gridato e se la notte fosse trascorsa insonne. Questi sogni mi hanno stancato molto più che se avessi passata tutta la notte vegliando e scrivendo. Come vedete, questo è un sogno, ed io non voglio dargli alcuna autorità, ma solo farne caso come di un sogno senz’andare più in là. Non vorrei poi che se ne scrivesse a casa, o qua o là, affinché quei di fuori, che nulla conoscono delle cose dell’Oratorio, non abbiano a dire, come han già detto, che Don Bosco fa vivere i suoi giovani di sogni. Questo però poco m’importa; dicano quello che vogliono. Ciascheduno tuttavia tragga dal sogno ciò che fa per lui. Per ora non vi do spiegazioni di esso, perché è tanto facile a capirsi da tutti. Quello che vi raccomando molto e molto si è che ravviviate la vostra fede, la quale si conserva special mente con la temperanza e con la fuga dell’ozio. Di questo siate nemici, di quella amici. In altre sere ritornerò su quest’argomento. Intanto vi do la buona notte”.
(MB XII, 348-356)