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            Monte Sole è un’altura dell’Appennino bolognese che fino alla Seconda guerra mondiale aveva diverse piccole località abitate lungo i suoi dorsali: tra il 29 settembre e il 5 ottobre del ‘44, i suoi abitanti, nella maggior parte bambini, donne e anziani, furono vittime di un terribile eccidio da parte delle truppe SS (Schutzstaffel, «squadre di protezione»; organizzazione paramilitare del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori create nella Germania nazista). Morirono 780 persone, molte di loro rifugiatesi nelle chiese. Persero la vita 5 sacerdoti, tra cui don Giovanni Fornasini, proclamato beato e martire nel 2021 da Papa Francesco.
            Questa è una delle stragi più efferate compiute dalle SS naziste in Europa, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, consumata attorno a Monte Sole, nei territori di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno (Bologna) e comunemente nota come la “strage di Marzabotto”. Tra le vittime ci furono alcuni sacerdoti e religiosi, tra cui il Salesiano don Elia Comini, che durante la vita e fino alla fine si sforzò di essere un buon pastore e di spendersi senza riserve, generosamente, in un esodo da sé senza ritorno. Questa è la vera essenza della sua carità pastorale, che lo presenta come modello di pastore che veglia sul gregge, pronto a dare la vita per esso, in difesa dei deboli e degli innocenti.

“Ricevimi pure come una vittima espiatoria”
            Elia Comini nacque a Calvenzano di Vergato (Bologna) il 7 maggio 1910. I genitori Claudio, falegname, ed Emma Limoni, sarta, lo prepararono alla vita e lo educarono alla fede. Fu battezzato a Calvenzano. A Salvaro di Grizzana fece la Prima Comunione e ricevette la Cresima. Fin dalla più giovane età dimostrò molto interesse per il catechismo, per le funzioni di chiesa, per il canto in serena e allegra amicizia con i compagni. L’arciprete di Salvaro, monsignor Fidenzio Mellini, da giovane militare a Torino aveva frequentato l’oratorio di Valdocco e aveva conosciuto don Bosco, che gli aveva profetizzato il sacerdozio. Monsignor Mellini stimava molto Elia per la sua fede, la bontà e le singolari capacità intellettuali e lo spinse a diventare uno dei figli di don Bosco. Per questo lo indirizzò al piccolo seminario salesiano di Finale Emilia (Modena) dove Elia frequentò la scuola media e il ginnasio. Nel 1925 entrò nel noviziato salesiano di Castel De’ Britti (Bologna) e vi emise la professione religiosa il 3 ottobre 1926. Negli anni 1926-1928 frequentò come chierico studente di Filosofia il liceo salesiano di Valsalice (Torino), dove era allora custodita la tomba di don Bosco. Fu in questo luogo che Elia iniziò un impegnativo cammino spirituale, testimoniato da un diario che egli redigerà fino a poco più di due mesi dalla tragica morte. Sono pagine rivelatrici di una vita interiore tanto profonda quanto non percepita all’esterno. Alla vigilia della rinnovazione dei voti egli scriverà: “Sono contento più che mai di questo giorno, alla vigilia dell’olocausto che spero Ti sia gradito. Ricevimi pure come una vittima espiatoria, quantunque non lo meriti. Se credi, dammi qualche ricompensa: perdona i miei peccati della vita passata; aiutami a farmi santo”.
            Compì il tirocinio pratico come assistente educatore a Finale Emilia, a Sondrio e a Chiari. Si laureò in Lettere presso l’Università Statale di Milano. Il 16 marzo 1935 venne ordinato sacerdote a Brescia. Scrisse: “Ho domandato a Gesù: la morte, piuttosto che venir meno alla mia vocazione sacerdotale; e l’amore eroico per le anime”. Dal 1936 al 1941 insegna Lettere nell’aspirantato “San Bernardino” di Chiari (Brescia) dando prova eccellente del suo talento didattico e della sua attenzione ai giovani. Negli anni 1941-1944 l’ubbidienza religiosa lo trasferisce all’istituto salesiano di Treviglio (Bergamo). Incarnò particolarmente la carità pastorale di don Bosco e i tratti dell’amorevolezza salesiana, che trasmetteva ai giovani attraverso il carattere affabile, la bontà e il sorriso.

Triduo di passione
            La dolcezza abituale del suo comportamento e la dedizione eroica al ministero sacerdotale brillarono con chiara evidenza durante i brevi soggiorni annuali estivi presso la mamma, rimasta sola a Salvaro, e presso la sua parrocchia di adozione, dove poi il Signore chiederà a don Elia la donazione totale dell’esistenza. Aveva scritto, tempo prima, nel diario: “Persiste sempre in me il pensiero che debba morire. Chissà! Facciamo come il servo fedele sempre preparato all’appello, a rendere ragione della gestione”. Siamo nel periodo giugno-settembre 1944, quando la terribile situazione creatasi nella zona tra Monte Salvaro e Monte Sole, con l’avanzamento della linea del fronte Alleato, la brigata partigiana Stella Rossa assestata sulle alture e i nazisti a rischio imbottigliamento, portò la popolazione sull’orlo della distruzione totale.
            Il 23 luglio i nazisti, a causa dell’uccisione di un loro soldato, incominciano una serie di rappresaglie: uccisione di dieci uomini, case incendiate. Don Comini si prodiga nell’accogliere i parenti degli uccisi e nel nascondere le persone ricercate. Inoltre aiuta l’anziano parroco di San Michele di Salvaro, mons. Fidenzio Mellini: fa catechismo, guida esercizi spirituali, celebra, predica, esorta, suona, canta e fa cantare per mantenere serena una situazione che va verso il peggio. Poi, insieme al sopraggiunto padre Martino Capelli, Dehoniano, don Elia accorre continuamente a soccorrere, consolare, amministrare i sacramenti, seppellire i morti. In alcuni casi riesce anche a salvare gruppi di persone conducendole in canonica. Il suo eroismo si manifesta con crescente chiarezza alla fine del settembre 1944, quando la Wehrmacht (Le Forze Armate Tedesche) cede ampiamente spazio alle terribili SS.
            Il triduo di passione per don Elia Comini e per padre Martino Capelli inizia venerdì 29 settembre. I nazisti causano il panico nella zona del Monte Salvaro e la popolazione si riversa in parrocchia in cerca di protezione. Don Comini, rischiando la vita, nasconde una settantina di uomini in un locale attiguo alla sagrestia, coprendo la porta con un vecchio armadio.            L’espediente riesce. Infatti i nazisti, perlustrando i vari ambienti per ben tre volte, non se ne accorgono. Giunge intanto la notizia che le terribili SS avevano massacrato in località “Creda” svariate decine di persone, tra le quali c’erano feriti e moribondi bisognosi di conforto. Don Elia celebra la sua ultima Messa al mattino presto e poi insieme a padre Martino, presi l’olio santo e l’Eucarestia, si affrettano sperando di poter ancora soccorrere qualche ferito. Lo fa liberamente. Tutti infatti lo dissuadono: dal parroco alle donne lì presenti. “Non vada, padre. È pericoloso!”. Provano a trattenere don Elia e padre Martino a forza, ma essi prendono questa decisione con piena consapevolezza del pericolo di morte. Don Elia dice: “Pregate, pregate per me, perché ho una missione da compiere”; “Pregate per me, non lasciatemi solo!”.
            Nei pressi della Creda di Salvaro i due sacerdoti vengono catturati; usati “come giumenti”, sono costretti a trasportare munizioni e, a sera, vengono rinchiusi nella scuderia di Pioppe di Salvaro. Sabato 30 settembre, don Elia e padre Martino spendono tutte le proprie energie nel confortare i numerosi uomini rinchiusi insieme a loro. Il Commissario Prefettizio di Vergato Emilio Veggetti, che non conosceva padre Martino, ma conosceva molto bene don Elia, invano cerca di ottenere la liberazione dei prigionieri. I due sacerdoti continuano a pregare e a consolare. A sera si confessano reciprocamente.
            Il giorno seguente, domenica 1° ottobre 1944, sull’imbrunire, la mitraglia falcia inesorabilmente le 46 vittime di quello che sarebbe passato alla storia come l’“Eccidio di Pioppe di Salvaro”: erano gli uomini considerati inabili al lavoro; tra loro, i due sacerdoti, giovani e costretti due giorni prima al lavoro pesante. Testimoni che si trovavano a breve distanza, in linea d’aria, dal luogo dell’eccidio hanno potuto sentire la voce di don Comini che guidava le Litanie e udire poi il rumore degli spari. Don Comini prima di accasciarsi colpito a morte da l’assoluzione a tutti e grida: “Pietà, pietà!”, mentre padre Capelli alzandosi dal fondo della Botte traccia ampi segni di croce, finché non ricade supino con le braccia aperte, in croce. Non fu possibile recuperare nessuna salma. Dopo venti giorni furono aperte le griglie e l’acqua del Reno trascinò via i resti mortali, facendone perdere completamente le tracce. Nella Botte si morì fra benedizioni e invocazioni, fra preghiere, atti di pentimento e di perdono. Qui, come in altri luoghi si morì da cristiani, con fede, con il cuore rivolto a Dio nella speranza della vita eterna.

Storia dell’eccidio di Montesole
            Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 i caduti furono 770, ma nel complesso le vittime di nazisti e fascisti, dalla primavera del 1944 alla liberazione, furono 955, distribuite in 115 diverse località all’interno di un vasto territorio che comprende i comuni di Marzabotto, Grizzana e Monzuno (e alcune porzioni dei territori limitrofi). Di questi, 216 furono i bambini, 316 le donne, 142 gli anziani, 138 le vittime riconosciute partigiani, cinque i sacerdoti, la cui colpa agli occhi dei nazisti consisteva nell’essere stati vicini, con la preghiera e l’aiuto materiale, a tutta la popolazione di Monte Sole nei tragici mesi di guerra e occupazione militare. Insieme a don Elia Comini, salesiano, e a padre Martino Capelli, dehoniano, in quei tragici giorni furono uccisi anche tre sacerdoti dell’Arcidiocesi di Bologna: don Ubaldo Marchioni, don Ferdinando Casagrande, don Giovanni Fornasini. Di tutti e cinque è in corso la Causa di Beatificazione e Canonizzazione. Don Giovanni, l’“Angelo di Marzabotto”, cadde, il 13 ottobre 1944. Aveva ventinove anni e il suo corpo rimase insepolto fino al 1945, quando venne ritrovato pesantemente martoriato. È stato beatificato il 26 settembre 2021. Don Ubaldo morì il 29 settembre, ucciso dal mitra sulla predella dell’altare della sua chiesa di Casaglia; aveva 26 anni, era stato ordinato prete due anni prima. I soldati nazisti trovarono lui e la comunità intenti nella preghiera del rosario. Lui fu ucciso lì, ai piedi dell’altare. Gli altri – più di 70 – nel cimitero vicino. Don Ferdinando fu ucciso, il 9 ottobre, da un colpo di pistola alla nuca, con la sorella Giulia; aveva 26 anni.

P. Pierluigi CAMERONI
Salesiano di Don Bosco, esperto di agiografia, autore di vari libri salesiani. È il Postulatore Generale della Società Salesiana di san Giovanni Bosco